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05 Luglio 2015

Carissimi Parrocchiani,

il racconto delle dieci piaghe inflitte all’Egitto al fine di convincere il faraone a lasciar partire Israele e permettergli di tornare in patria, può suscitare in noi qualche perplessità. Infatti, sembra rivelare un volto di Dio che contrasta con l’immagine del Dio misericordioso al quale continuamente Gesù ci rimanda: qui vediamo non un Dio che perdona, ma una Dio che ‘punisce’.

È necessario allora intendere bene il significato delle dieci piaghe: è legittimo parlarne in termini di punizioni da parte di Dio?

Al riguardo, dobbiamo constatare che la categoria di punizione in rapporto a Dio non è estranea alla Scrittura. Questa categoria fa la sua comparsa già all’inizio del libro della Genesi, quando Dio interviene per ‘punire’ l’uomo e la donna a motivo della loro disobbedienza.

In realtà ciò che la Scrittura presenta in termini di castigo è il male che l’uomo fa a se stesso nel momento in cui opera in modo contrario ai dettami di Dio. Nel nostro caso, le piaghe d’Egitto sono il male che il faraone e il popolo egiziano infliggono a se stessi rifiutandosi di accogliere la parola liberatrice di Dio e, di conseguenza, restando prigionieri dei propri condizionamenti.

Sono particolarmente illuminanti in proposito due considerazione del Card. Martini. Egli, anzitutto, fa notare che

 

Tutte le volte che non abbiamo ascoltato la Parola del Signore, che ci voleva più veri, più autentici, più rispondenti all’amore, più pronti ad offrire un servizio che a esigerlo, abbiamo sentito in noi dei segni di squilibrio interiore; esso sono la manifestazione delle piccole schiavitù e dei condizionamenti a cui cediamo. Sono tutte quelle forme di malessere che ci rodono interiormente: forme di paura nell’affrontare alcune situazioni, certe forme penose e prolungate di stanchezza, certe forme di malumore, certe incapacità a pregare…. Insomma, il non saper essere felici. Tutte le volte che non c’è piena felicità, vuol dire che c’è qualcosa, qualche condizionamento che ci frena… (C.M. Martini, Vita di Mosè, Borla, Roma 19845, p. 56).

 In secondo luogo, egli afferma che è possibile parlare di un ‘castigo fondamentale’ al quale si possono ricondurre, poi, tutti gli altri. Tale castigo è, a suo parere, l’incapacità di amare”, cioè “l’incapacità di realizzare effettivamente l’amore di Dio, soprattutto quello del prossimo”. Questo perché

 L’amore di Dio può anche essere facile; difficile è quello del prossimo, che consiste nel rispondere alle vere situazioni di disagio del mio fratello, anche là dove il mio fratello non merita il mio aiuto, anzi lo demerita. Se noi non siamo capaci di affrontare queste situazioni, ecco che ne consegue scontentezza, disagio e disgusto, che coinvolgono le persone, le comunità, i gruppi, le istituzioni: è il castigo dell’Egitto (Idem, pp. 56-57).

 

Don Luigi Pedrini

28 Giugno 2015

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver rivolto la nostra attenzione alla figura del faraone, ora guardiamo al secondo grande protagonista di questa vicenda che designiamo comunemente con il titolo di ‘piaghe d’Egitto’.

Chi è dunque Mosè? Mosè appare un uomo profondamente libero di fronte al faraone. La consapevolezza di essere mandato dal Signore per questa missione e di poter contare sulla forza dello Spirito di Dio le rende capace di pazientare, di adattarsi e, nello stesso tempo, di mantenersi fermo, tenace nel richiedere ciò che è giusto.

Mosè affronta questa non facile situazione da uomo pienamente affidato alla chiamata di Dio e, di riflesso, del tutto distaccato dalle proprie risorse umane.

Al riguardo, è significativo il suo diverso atteggiarsi in questa situazione rispetto all’iniziativa presa a suo tempo al principio della vita adulta. Allora aveva optato per la strada della violenza, scelta ritenuta necessaria per prendere in mano la situazione con efficacia. Ora, invece. imbocca la strada della persuasione senza cedere alla tentazione di imporsi con la forza. È significativo al riguardo che nella prima iniziativa Mosè non dica una parola e passi subito all’azione; nella seconda, invece, fa leva sulla parola, sul dialogo che accompagna anche con segni che danno autorità e credibilità a ciò che va annunciando.

Così da una parte, Mosè è l’uomo che si fa portatore della Parola di Dio al faraone. Nel confronto con il faraone incontriamo continuamente il ritornello. “Va’ dal faraone e parlagli…”. E Mosé, in fedeltà alla Parola, accetta ogni volta di ritornare dal faraone e, pur riscontrando in lui un’ostinazione dura a morire, insiste perché abbia a credere nella Parola del Signore.

Dall’altra, Mosè è anche l’uomo dei segni. Le dieci piaghe d’Egitto sono tra i segni più significativi da lui compiuti. Sono segni in progressione: si passa dall’iniziale puro segno dimostrativo per cui Aronne getta davanti al faraone il bastone che si trasforma in serpente (segno che non viene accolto, perché i sapienti d’Egitto riescono a fare la stessa cosa) ai segni sempre più molesti e più duri (le mosche, l’acqua che non si può bere…) fino alla decima piaga (la morte dei primogeniti egiziani) che vincerà la durezza di cuore del faraone e lo spingerà ad acconsentire alla richiesta avanzata da Mosè.

A questo punto si impone, però, la necessità di far luce sul significato da attribuire alle dieci piaghe, dato che, a prima vista, sembrano mostrare un Dio che castiga.

Ne parleremo la prossima settimana!

Don Luigi Pedrini

21 Giugno 2015

Carissimi Parrocchiani,

riflettendo sulla figura del faraone, abbiamo potuto constatare in lui un atteggiamento ambivalente.

Da una parte si dimostra un uomo liberale, intelligente, aperto al dialogo: quantunque le parole di Mosè lo mettano in crisi, tuttavia, lo ascolta, non lo fa arrestare, non lo fa uccidere, accetta il confronto; dall’altra, però, fino all’ultima piaga – quella decisiva – non se la sente di concedere ad Israele di ritornare nella sua terra. Dopo l’iniziale disponibilità all’indomani della piaga che colpisce l’Egitto ritorna puntualmente sulla sua posizione intransigente di partenza.

In questo atteggiamento ambivalente possiamo riconoscere il limite tipico dell’uomo che si lascia condizionare dalla posizione che occupa e dal ruolo che svolge.

Il faraone da una parte intuisce che il tempo è maturo perché Israele lasci l’Egitto e che la strada prospettata da Mosè è quella giusta; dall’altra, però, teme che la partenza di Israele incontri la disapprovazione del suo popolo e abbia anche dei contraccolpi negativi non indifferenti sull’economia egiziana.

Così, il timore di fare brutta figura di fronte al suo popolo e di compromettere in certa misura il suo potere spiega l’atteggiamento di resistenza che assume e che mantiene sostanzialmente fino all’ultima piaga. Si spiega anche l’atteggiamento molto rigido e duro che ha assunto all’inizio del confronto con Mosè. La sua risposta è stata:

[17] Rispose: “Fannulloni siete, fannulloni! Per questo dite: Vogliamo partire, dobbiamo sacrificare al Signore. [18] Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni” (5,16-17).

Alla radice di questo atteggiamento ambivalente intravediamo il dramma interiore di questo uomo di governo per cui vorrebbe andare incontro alle richieste di Mosè e per questo arriva a riconoscere persino di essersi sbagliato, di aver peccato, ma subito dopo ritratta tutto quello che ha detto e ritorna sui suoi passi per timore di mettere in crisi tutto il sistema economico dell’Egitto e di fallire come sovrano.

Concludendo possiamo dire di trovarci di fronte a un uomo abile, intelligente, anche nobile d’animo, ma interiormente condizionato dal suo ruolo di governo e di potere.

Don Luigi Pedrini

14 Giugno 2015

Carissimi Parrocchiani,

seguendo la vicenda delle piaghe d’Egitto ci siamo soffermati sulla figura del faraone. Anche nei suoi atteggiamenti di resistenza ad assecondare il disegno di Dio e nella progressiva apertura del suo cuore possiamo cogliere qualche insegnamento per la nostra vita.

Giù abbiamo avuto modo di riconoscere in lui un uomo fondamentalmente onesto e aperto al confronto leale. In effetti egli appare come un uomo schietto che dice pane al pane e vino al vino: un uomo che ha il coraggio di dire le cose come sono. Lo si vede chiaramente nel dialogo che fa seguito alla piaga della cavallette.

[8] Mosè e Aronne furono richiamati presso il faraone, che disse loro: “Andate, servite il Signore, vostro Dio! Ma chi sono quelli che devono partire?”. [9] Mosè disse: “Andremo con i nostri giovani e i nostri vecchi, con i figli e le figlie, con il nostro bestiame e le nostre greggi perché per noi è una festa del Signore”. [10] Rispose: “Il Signore sia con voi, come io intendo lasciar partire voi e i vostri bambini! Ma badate che voi avete di mira un progetto malvagio. [11] Così non va! Partite voi uomini e servite il Signore, se davvero voi cercate questo!” (Es. 10,8-11).

Come si vede, il faraone è molto esplicito: asseconda la richiesta di Mosé, ma si rende conto che la richiesta di allontanarsi tre giorni di cammino portando con sé tutta la famiglia nasconde l’intenzione di uscire dall’Egitto per sempre. Per questo senza mezzi termini dichiara che la richiesta nasconde un secondo fine, “un progetto malvagio”. Se l’intenzione è davvero quella di sacrificare al Signore, per questo non è necessario che partano gli uomini con l’intera famiglia.

Il faraone è anche un uomo disposto a ricredersi e a non irrigidirsi sui suoi principi. Così, ad esempio, dopo la piaga delle rane, si dimostra disponibile a lasciare partire Israele, contrariamente a all’indisponibilità manifestata fino a quel momento: Fece chiamare Mosè e Aronne e disse: “Pregate il Signore, perché allontani le rane da me e dal mio popolo; io lascerò andare il popolo, perché possa sacrificare al Signore!” (Es 8,4).

Non solo. Oltre a saper prendere le distanze dalle sue posizioni, è un uomo che ha l’umiltà di  riconoscere i propri sbagli. Dopo la piaga della grandine dice a Mosè ad Aronne: “Questa volta ho peccato: il Signore ha ragione; io e il mio popolo siamo colpevoli. Pregate il Signore: basta con i tuoni e la grandine! Vi lascerò partire e non resterete qui più oltre” (Es 9,27-28). E dopo l’ultima piaga, quella decisiva che lo convincerà definitivamente a venire incontro alla richiesta di Mosè e di Aronne confessa: “Ho peccato contro il Signore, vostro Dio, e contro di voi. Ma ora perdonate il mio peccato anche questa volta e pregate il Signore vostro Dio perché almeno allontani da me questa morte!” (Es 10,16-17) .

Dunque, nel faraone vediamo un uomo che si sforza di capire la situazione degli altri e che sa riconoscere i propri sbagli. Le parole della seconda citazione manifestano una grande umiltà: sono parole che anticipano quelle che Gesù metterà in bocca al figliol prodigo: “Padre ho peccato contro il Cielo e contro di te. Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio” (Lc 15,18-19)

Don Luigi Pedrini

31 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

proseguendo il racconto della vicenda di Mosè, ora dovremmo considerare gli interventi potenti di Dio – le cosiddette dieci piaghe – con cui ha piegato il cuore del faraone e lo ha convinto a lasciare uscire Israele dall’Egitto.

Si tratterebbe di passare in rassegna le singole piaghe – la piaga delle mosche, delle acque del Nilo che si tingono di rosso, delle ulcere, delle cavallette… – e cercare di leggerne il significato. Preferisco, però, non seguire questa strada e – come suggerisce sant’Ignazio nel suo libro sugli Esercizi Spirituali – porre attenzione con voi ai protagonisti di questi eventi che sono sostanzialmente due: Mosè e il faraone. Guardiamo, dunque, a queste due figure per cercare di capire cosa c’è in noi del faraone, che cosa c’è in noi di Mosé; consideriamo come i rapporti tra Mosè e il faraone interpellano la nostra vita e ci stimolano a lasciare ciò che è fuorviante per valorizzare ciò che invece può alimentare in noi un’esistenza autentica. Sullo sfondo teniamo come punti di riferimento i capitoli 5-11 che raccontano le dieci piaghe e come si è evoluto l’atteggiamento del faraone sia nei confronti di Dio, sia nei confronti di Israele.

Chi è dunque, il faraone? Dai testi appare, anzitutto, come un uomo che sa trattare con le persone, un uomo liberale, aperto al confronto. Così si apre il primo dialogo tra Mosè e il faraone

In seguito, Mosè e Aronne vennero dal faraone e gli annunciarono: “Così dice il Signore, il Dio d’Israele: ‘Lascia partire il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto!’”. Il faraone rispose: “Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce e lasciare partire Israele? Non conosco il Signore e non lascerò certo partire Israele!” (Es 5,1-2).

A prima vista, sembrerebbero parole sprezzanti, ma forse non è così.  In fondo, il faraone ha ragione dal suo punto di vista: egli fa presente che non conosce il Signore. Pertanto, non vede la ragione per cui Mosè debba imporgli una religione diversa dalla sua e di conseguenza la ragione per cui gli Israeliti dovrebbero partire. Più avanti, precisamente dopo la piaga delle mosche, vediamo in lui un uomo disposto a fare dei passi di avvicinamento, a trattare, pur di non chiudere il dialogo.

Il faraone fece chiamare Mosè e Aronne e disse: “Andate a sacrificare al vostro Dio, ma nel paese”. Mosè rispose: “Non è opportuno far così, perché quello che noi sacrifichiamo al Signore, nostro Dio, è abominio per gli Egiziani. Se noi facessimo, sotto i loro occhi, un sacrificio abominevole per gli Egiziani, forse non ci lapiderebbero? Andremo nel deserto, a tre giorni di cammino, e sacrificheremo al Signore, nostro Dio, secondo quanto egli ci ordinerà!”. Allora il faraone replicò: “Vi lascerò partire e potrete sacrificare al Signore nel deserto. Ma non andate troppo lontano e pregate per me” (Es 8,21-24).

In questo testo vediamo bene lo sforzo di quest’uomo per adattarsi e venire incontro. Prima dice di fare il sacrificio in Egitto; poi, accogliendo la richiesta di Mosè, concede di uscire dal paese, anche se chiede di non andare lontano: tre giorni di cammino gli sembrano eccessivi. Addirittura, aggiunge: “Pregate per me”.

Don Luigi Pedrini

24 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Mosè in procinto di dare inizio in Egitto alla missione liberatrice del suo popolo. Ora, Mosè è un uomo interiormente rinfrancato dai segni con cui Dio ha attestato la sua volontà di essergli accanto e di dargli la forza necessaria per presentarsi al faraone e intercedere a favore degli israeliti.

Il libro dell’Esodo riferisce che la richiesta da lui avanzata ha incontrato la risposta negativa del faraone. Non solo egli si rifiuta di sgravare gli israeliti dai lavori forzati e di lasciarli partire, ma addirittura ne aumenta il carico. In quel giorno il faraone diede questi ordini ai sovrintendenti del popolo e agli scribi: “Non darete più la paglia al popolo per fabbricare i mattoni, come facevate prima. Andranno a cercarsi da sé la paglia. Però voi dovete esigere il numero di mattoni che facevano finora, senza ridurlo. Sono fannulloni; per questo protestano: ‘Vogliamo partire…’” (Es 5,6-8).

Così, la mano del faraone diventa ancora più pesante sui figli di Israele al punto che la situazione diventa insostenibile e, pertanto, le persone più rappresentative del popolo prendono l’iniziativa di andare a reclamare dal faraone: “Perché tratti così noi tuoi servi? Non viene data paglia ai tuoi servi, ma ci viene detto: ‘Fate i mattoni!’. E ora i tuoi servi sono bastonati e la colpa è del tuo popolo!” (Es 5,15-16).

Il faraone, però, è irremovibile, così che lo scontento cresce tra gli israeliti e la protesta si leva anche nei confronti di Mosè e di Aronne: “Il Signore guardi a voi e giudichi, perché ci avete resi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano la spada per ucciderci!” (Es 5,21).

Per Mosè è un momento di smarrimento e di profondo dolore. Ancora una volta vede profilarsi uno scacco alla sua buona volontà e generosità. Ora, però, Mosè è uomo umile che sta imparando a non far conto sulle proprie forze, ma su Dio che lo ha chiamato e inviato. Per questo chiede spiegazioni al Signore: “Signore, perché hai maltrattato questo popolo? Perché dunque mi hai inviato? Da quando sono venuto dal faraone per parlargli in tuo nome, egli ha fatto del male a questo popolo, e tu non hai affatto liberato il tuo popolo!” (Es 5,22-23).

Ed ecco la risposta puntuale di Dio: Il Signore disse a Mosè: “Ora vedrai quello che sto per fare al faraone: con mano potente li lascerà andare, anzi con mano potente li scaccerà dalla sua terra!” […] Allora gli Egiziani sapranno che io sono il Signore, quando stenderò la mano contro l’Egitto e farò uscire di mezzo a loro gli Israeliti!” (Es 6,1; 7,5).

A questo punto inizia il racconto di quegli interventi potenti di Dio – noti come le dieci piaghe d’Egitto – con i quali egli piegherà il cuore indurito del faraone e otterrà per gli israeliti il permesso di abbandonare l’Egitto e intraprendere la via del ritorno nella terra di Abramo.

Ma di questo vedremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

 

17 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo visto le difficoltà di Mosè di fronte alla chiamata di Dio. Alla fine, però, accetta, si affida e decide di ritornare in Egitto. Va dal suocero e lo informa: “Lascia che io parta e torni dai miei fratelli che sono in Egitto, per vedere se sono ancora vivi!” (4,18).

Così, a distanza di quarant’anni, dopo un tentativo andato a vuoto, riprende la ricerca dei suoi fratelli. Eppure, quale differenza tra questa ricerca e la prima. Allora si trattava di un intervento generoso frutto della sua iniziativa, un po’ ingenuo, forse anche un po’ presuntuoso, fatto da un giovane, pieno di energie. Adesso, invece, è la missione che egli, uomo maturo e anziano, affronta solo perché Dio gliela affida.

Ed ecco le sorprese che Dio gli riserva. Anzitutto, l’incontro con il fratello di sangue, Aronne. Tutto si svolge secondo quanto Dio aveva preannunciato: egli sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e metterai sulla sua bocca le parole da dire e io sarò con te e con lui mentre parlate e vi suggerirò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te” (Es. 4,14-16). E così avviene: (Aronne) andò e incontrò (Mosè) al monte di Dio e lo baciò. 28Mosè riferì ad Aronne tutte le parole con le quali il Signore lo aveva inviato e tutti i segni con i quali l’aveva accreditato. 29Mosè e Aronne andarono e radunarono tutti gli anziani degli Israeliti. 30Aronne parlò al popolo, riferendo tutte le parole che il Signore aveva detto a Mosè (Es. 4,27-30) Dunque, Dio improvvisamente, in modo inaspettato, mette al fianco di Mosè un ‘fratello’: sarà il suo sostegno e gli permetterà di superare qualunque imbarazzo.

Una seconda sorpresa Dio riserva a Mosè ed è l’incontro con i fratelli. Il testo riferisce che la reazione del popolo di Israele alle parole che Aronne pronuncia in nome di Mosè è stata del tutto positiva: Il popolo credette (Es 4,31). Anzi, si precisa che gli israeliti, quando udirono che il Signore aveva visitato gli Israeliti e che aveva visto la loro afflizione, essi si inginocchiarono e si prostrarono (Es 4,31). Contrariamente a quello che Mosè aveva temuto (“non mi crederanno”, Es 4,1)) il popolo credette. Dunque, Mosè deve ricredersi e riconoscere che Dio lo ha preceduto e ha già arato il terreno ancora prima che abbia ad iniziare la sua missione. Questo precedere è una caratteristica tipica dell’agire di Dio: la sua iniziativa viene prima della nostra opera, come rimarca bene P. Stancari nel suo commento:

 (Mosè) non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli, che già questi – nella persona di Aronne – gli muovono incontro. Mosè si trova ancora presso il “monte di Dio”; ed in quello stesso luogo lo raggiungono i suoi fratelli, che scambiano con lui il “bacio” dell’amicizia e della pace. Man mano che l’impegno missionario di Mosè andrà prendendo corpo nei fatti, in riferimento alle situazioni concrete, egli sarà costretto a constatare di essere ogni giorno scavalcato dall’iniziativa di Dio che lo previene. Per chi è veramente chiamato al servizio dei propri fratelli, tutto accade come a gente sorpresa da un dono: quando forse ci sta predisponendo a qualche grande impresa apostolica ecco che ci accorgiamo, pieni di meraviglia, che i nostri fratelli sono già accanto a noi, […] uniti a noi dalla comunione che il Signore dona agli uomini, chiamati ad un’unica salvezza (P. Stancari, Lettura spirituale dell’Esodo, p. 49).

Don Luigi Pedrini

03 Maggio 2015

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo visto la scorsa settimana le obiezioni che Mosè solleva riguardo alla missione alla quale Dio lo chiama e anche i segni con cui lo invita a non temere e ad affidarsi.

Le obiezioni di Mosè – il rischio di non essere ascoltato dagli israeliti o dal faraone, come pure la difficoltà dovuta alla sua scarsa capacità comunicativa (la tradizione rabbinica sostiene che Mosè difettasse di balbuzie) – se da una parte hanno indubbiamente una loro pertinenza, dall’altra lasciano intravedere sullo sfondo la difficoltà fondamentale insita in ogni vocazione. Si tratta della sproporzione tra la propria persona e la missione a cui si è chiamati, percepita questa come qualcosa di troppo gravoso, superiore alle proprie forze.

È una costante che si ritrova in tutti i racconti di vocazione. La ragione di tale sproporzione è semplice: Dio rivolge la sua chiamata, ma questa non cambia l’umanità della persona chiamata, non le dà un’attrezzatura straordinaria che la equipaggia di una forza sovrumana di resistenza;s l’uomo, davanti alla chiamata del Signore, rimane sempre con la sua povertà di parola, di pensieri, di forze.

La vocazione richiede, dunque, l’andare oltre se stessi per riporre interamente in Dio la propria fiducia.

Pensiamo ad Abramo, la cui speranza riposava interamente sulla promessa di Dio. Proprio questa speranza gli ha permesso di perseverare lottando contro un presente che sembrava smentire in modo palese le sue aspettative.

Pensiamo a Maria: la maternità con la quale è diventata la madre del Messia è stata il frutto della fede, cioè di quell’andare oltre se stessa per riporre interamente la sua speranza e fiducia nella parola di Colui al quale “nulla è impossibile” (Lc 1,37).

Ritornando a Mosè, l’unica risorsa sulla quale egli può contare – e Dio continuamente glielo ricorda come garanzia – è la parola di Dio: Non sono forse io, il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire (Es 3,12).

Grazie a questa parola Mosè potrà riportare vittoria sul senso di inadeguatezza che lo opprime e che vorrebbe metterlo in fuga, come pure sulle resistenze che incontrerà sia da parte del faraone, sia da parte dagli israeliti.

Don Luigi Pedrini

26 Aprile 2015

Carissimi Parrocchiani,

lasciamo il capitolo 3 ci mettiamo in ascolto del capitolo 4 dell’Esodo. È un testo che possiamo definire di ‘transizione’: svolge cioè la funzione di collegamento tra il racconto della vocazione di Mosè (cap. 3) e quello del suo primo incontro con il faraone (cap. 5). Apparentemente sembra una pagina di secondaria importanza sulla quale si potrebbe sorvolare e passare oltre; in realtà non è così. Come insegnano bene i Vangeli, i testi di questo genere (si pensi ad esempio ai cosiddetti ‘sommari’) sono molto importanti perché focalizzano alcune idee di fondo, riassumono quello che è stato detto prima e preparano i successivi sviluppi narrativi. Così anche in questo capitolo: ricompaiono i temi già accennati precedentemente (gli ebrei schiavi in Egitto, Mosè nella situazione di profugo, la sua vocazione e missione) e sono anticipati gli avvenimenti successivi (le piaghe, l’emergere della figura di Aronne, il profilarsi dello scontro con il faraone).

Da parte nostra ci mettiamo in ascolto di questo testo sempre secondo l’angolatura che abbiamo scelto: quella del cammino di fede di Mosè.

Il capitolo si apre con le obiezioni che Mosè solleva nei confronti della missione che Dio vuole affidargli. La prima obiezione riguarda l’indifferenza e l’incredulità che potrebbe incontrare nei suoi fratelli, gli israeliti: “Ecco, non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce, ma diranno: “Non ti è apparso il Signore!””. La risposta di Dio è molto puntuale: Il Signore gli disse: “Che cosa hai in mano?”. Rispose: “Un bastone”. Riprese: “Gettalo a terra!”. Lo gettò a terra e il bastone diventò un serpente, davanti al quale Mosè si mise a fuggire. Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano e prendilo per la coda!”. Stese la mano, lo prese e diventò di nuovo un bastone nella sua mano. “Questo perché credano che ti è apparso il Signore, Dio dei loro padri, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe”. Il Signore gli disse ancora: “Introduci la mano nel seno!”. Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò: ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: “Rimetti la mano nel seno!”. Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne. “Dunque se non ti credono e non danno retta alla voce del primo segno, crederanno alla voce del secondo! Se non crederanno neppure a questi due segni e non daranno ascolto alla tua voce, prenderai acqua del Nilo e la verserai sulla terra asciutta: l’acqua che avrai preso dal Nilo diventerà sangue sulla terra asciutta”. Come si vede, Dio ha già predisposto tutto, ha pure previsto come Mosé dovrà far fronte alle resistenze da parte del faraone e degli egiziani.

La seconda obiezione fa leva, invece, sulla sua modesta capacità comunicativa:. Disse al Signore: “Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua”. Anche qui la risposta del Signore è precisa: Il Signore replicò: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? 12Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire”. Dunque, Dio provvederà anche a questo: sarà lui a mettere sulla sua bocca le parole appropriate e a dargli la forza necessaria. Mosè, però, non è ancora del tutto convinto e la tentazione di tirarsi indietro è forte, al punto che arriva a dire: “Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!.  Dio, però, non si lascia scoraggiare e insiste…

Don Luigi Pedrini

19 Aprile 2015

Carissimi Parrocchiani,

concludo il commento a questa seconda fase della vita di Mosè con una citazione che traggo da La vita di Mosè di san Gregorio di Nissa.

La sua riflessione di carattere spirituale vuole offrire qualche luce anche per il nostro cammino di fede. Ed ecco la sua prima considerazione. Riferendosi alla vita appartata di Mosè nel deserto, scrive: Allorché vivremo solitari, senza dover venire alle mani con gli avversari, senza dover essere arbitri di litigi, ma in unione di pensiero e di sentimenti con i pastori che condividono la nostra vita; quando tutti i moti del nostro spirito saranno unificati sotto la guida della ragione, come un gregge condotto dal suo pastore; quando potremo godere di questa vita tranquilla e senza lotte, la verità risplenderà su di noi e illuminerà con i suoi raggi gli occhi del nostro spirito.

San Gregorio afferma che quando troviamo, dopo un periodo intenso di attività, un tempo per fermarci, vissuto in pace con gli altri (in unione di pensiero e di sentimenti) e con noi stessi (unificati tutti i moti interiori) allora la verità trova spazio in noi e illumina interamente la nostra esistenza: anche noi come Mosè diventiamo spettatori di un roveto che brucia senza consumarsi.

La seconda considerazione riguarda proprio il fatto del roveto ardente che san Gregorio legge come un segno anticipatore del mistero dell’Incarnazione. Il segno umile del roveto è attraversato da un fuoco che arde e non consuma. Ugualmente nel mistero dell’incarnazione: Dio che è luce si è abbassato fino ad assumere la nostra natura umana; nel grembo di Maria si è manifestato nella carne.

Il roveto richiama anche l’umile condizione della natura umana che Dio ha voluto assumere. Non ha voluto venire in mezzo a noi con lo splendore della sua gloria, ma rivestendosi della nostra carne mortale. La luce di Dio – scrive san Gregorio – non risplende di qualche luce stellare – il suo splendore rischierebbe allora di essere confuso con quello di una materia celeste – e tuttavia, pur provenendo da un semplice roveto terreno, supera con i suoi raggi gli astri del cielo. Dunque, questa luce promana da una umanità che è in tutto come la nostra: veramente Dio si è fatto uomo; eppure, questa luce che risplende in un uomo come noi è ben superiore a ogni essere celeste, perché è la luce del Figlio di Dio fatto uomo. Anche il fatto del fuoco che arde senza consumare il roveto rimanda al mistero dell’Incarnazione. È quanto è accaduto nel mistero del parto verginale: il fuoco della divinità, che nascendo ha illuminato il mondo, ha lasciato intatto il roveto che lo ha accolto, e il parto non ha fatto sfiorire la verginità di Maria.

Ed ecco gli insegnamenti che ricava per il nostro cammino spirituale. Anzitutto, questo episodio insegna ciò che dobbiamo fare per rimanere sotto i suoi raggi. Perché la luce del roveto possa illuminare sempre la nostra vita dobbiamo custodire la pace con gli altri e con noi stessi, coltivando una vita virtuosa; in secondo luogo, ci esorta ad accostarci al mistero di Dio in atteggiamento di umiltà: infatti, non possiamo correre con i calzari ai piedi verso il luogo elevato dove si manifesta la luce della verità; … prima dobbiamo spogliare i piedi dell’anima del rivestimento di pelli morte e terrene di cui la nostra natura è stata rivestita, all’inizio, quando per avere disobbedito al comando divino, siano rimasti nudi (da: La vita di Mosé, di Gregorio di Nissa, II,19-22)

Don Luigi Pedrini