Archivi categoria: Messaggio Settimanale

13 Settembre 2015

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa abbiamo avuto modo di apprezzare la scelta coraggiosa di Mosè che nella situazione drammatica in cui è venuto a trovarsi ha optato per la fede e si è rimesso totalmente nelle mani del Signore.

Ora vorrei invitare ciascuno di noi a riflettere su questa decisione che rivela una fede che si espone al rischio di giocarsi interamente senza lasciarsi intimorire di fronte all’incertezza che comporta il seguire il Signore.

In effetti c’è n’incertezza che sfida la fede e che proviene sia dal di dentro, sia dal di fuori.

C’è, anzitutto, un’incertezza che proviene dall’interno della stessa esperienza di fede: il credente la sperimenta nel momento in cui si dispone a seguire il Signore. Al riguardo, Gesù ci ha espressamente avvertiti: illustrando le condizioni che la sequela richiede dichiara che seguire lui vuol dire affidarsi a uno che “non ha dove posare il capo” (Mt 8,20) e che chiede al discepolo di dargli la precedenza su tutti gli altri legami affettivi: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,22). L’incertezza che mette alla prova la fede è costituita da questo non sapere ciò che ci riserva un domani l’andare dietro al Signore.

Oltre a questa, c’è anche un’incertezza che il credente incontra dal di fuori: nasce dal constatare che attorno a sé c’è un mondo che è sempre meno cristiano e che ha una comprensione della vita dissonante con l’insegnamento del Vangelo. Qui la messa alla prova della fede deriva da un senso di estraneità che il credente avverte nei confronti del mondo. Ha l’impressione di essere un po’ strano, come fuori dal mondo, dal momento che vive e testimonia un messaggio che è agli antipodi rispetto alla mentalità dominante.

Da questo punto di vista Mosè rappresenta il credente che ha il coraggio di confrontarsi con queste sfide e che, affidandosi interamente alla Parola di Dio, accetta di seguire fino in fondo le vie misteriose che il Signore gli indica.

Credo che tutto questo abbia qualcosa da dire alla nostra vita. Vi possiamo cogliere un invito verificare la nostra fede. In particolare, a chiederci se siamo disposti a confrontarci con queste sfide e ad affrontarle con la stessa disponibilità all’abbandono nelle mani del Signore di cui dà testimonianza Mosè.

 

Don Luigi Pedrini

06 Settembre 2015

Carissimi Parrocchiani,

la settimana scorsa ci siamo lasciati con una domanda aperta: come ha reagito Mosè nella drammatica situazione in cui è venuto a trovarsi? Sono illuminanti in proposito i vv. 13-14: Mosè rispose: “Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi; perché gli Egiziani che voi oggi vedete, non li rivedrete mai più! Il Signore combatterà per voi, e voi starete tranquilli” (Es 14,13-14). Sono parole che rivelano il coraggio di chi pone nel Signore la propria fiducia. Mosè è veramente un uomo di fede che sa incoraggiare gli altri ad avere fede.

Tuttavia, saremmo in errore se pensassimo a Mosè come l’uomo che vede davanti a sé tutto chiaro, senza nutrire al alcun dubbio o paura. È eloquente in proposito il versetto che segue dal quale apprendiamo che Mosè chiede aiuto a Dio gridando: “Perché gridi verso di me?”, gli dice il Signore. Dunque, Mosè agli altri chiede di stare tranquilli, ma egli non può fare a meno di gridare.

In questo modo scopriamo in lui questa compresenza apparentemente contraddittoria di luce e di ombra: da una parte, come di slancio, si rimette completamente a Dio nella fede; dall’altra è preso dall’angoscia, che gli incute paura e lo fa disperare.

Nel Nuovo Testamento ritroveremo un’esperienza del tutto simile nell’apostolo Pietro, quando di slancio fa il suo atto di fede nel Signore per cui esce dalla barca e gli va incontro camminando sulle acque; poi, però, si lascia prendere dalla paura e comincia ad affogare.

Fede e paura lottano nel cuore di Pietro così come nel cuore di Mosè. Entrambi devono constatare che la prontezza dello spirito deve poi fare i conti con la debolezza della carne.

Al grido di Mosè fa seguito immediatamente la risposta di Dio: “Ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto”. L’ordine di Dio è perentorio e prospetta per gli Israeliti un’impossibile strada di salvezza. E qui assistiamo alla scena fondamentale che diventerà il cuore della fede di Israele: il passaggio del Mar Rosso.

Allora Mosè stese la mano sul mare. E il Signore durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d’oriente, rendendolo asciutto; le acque si divisero. Gli Israeliti entrarono nel mare asciutto, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra. Gli Egiziani li inseguirono con tutti i cavalli del faraone, i suoi carri e i suoi cavalieri, entrando dietro di loro in mezzo al mare.

Ma alla veglia del mattino il Signore dalla colonna di fuoco e di nube gettò uno sguardo sul campo degli Egiziani e lo mise in rotta. Frenò le ruote dei loro carri, così che a stento riuscivano a spingerle. Allora gli Egiziani dissero: “Fuggiamo di fronte a Israele, perché il Signore combatte per loro contro gli Egiziani!”.

Il Signore disse a Mosè: “Stendi la mano sul mare: le acque si riversino sugli Egiziani, sui loro carri e i loro cavalieri”. Mosè stese la mano sul mare e il mare, sul far del mattino, tornò al suo livello consueto, mentre gli Egiziani, fuggendo, gli si dirigevano contro. Il Signore li travolse così in mezzo al mare. Le acque ritornarono e sommersero i carri e i cavalieri di tutto l’esercito del faraone, che erano entrati nel mare dietro a Israele: non ne scampò neppure uno.  Invece gli Israeliti avevano camminato sull’asciutto in mezzo al mare, mentre le acque erano per loro una muraglia a destra e a sinistra.

Possiamo notare che la messa in atto di questa uscita non avviene in modo concitato e rocambolesco, ma in modo solenne, dignitoso, ordinato. Questa uscita assomiglia ad una processione trionfale. Israele avanza senza difficoltà nella notte, quando per sé si è impediti a camminare. Eppure per Israele tutto si spiana, come a dire che quando si agisce con il Signore, abbandonati a lui, tutto si semplifica e si appiana. Quella che doveva essere una notte di paura si trasforma inaspettatamente in una notte di vittoria e di pace.

Don Luigi Pedrini

30 Agosto 2015

Carissimi Parrocchiani,

alla luce del racconto sapienziale offertoci dal card. Martini nel suo commento a questo episodio biblico abbiamo meglio il polso della situazione che è venuta a crearsi. È una situazione drammatica che vede il faraone alle spalle degli israeliti e ormai sta per raggiungerli; il popolo di Israele che è in preda ad una grande paura; i capi di Israele che protestano nei confronti di Mosè e che si ricredono sulla fiducia che gli hanno accordata.

In questa situazione come ha reagito Mosè? Nel racconto sapienziale che abbiamo ascoltato Mosè è un uomo silenzioso: ascolta quanto si va dicendo e per il momento non prende posizione.

Il card. Martini dando però un seguito al suo racconto sapienziale prova a immaginare le scelte concrete che Mosè avrebbe potuto fare. Ne ipotizza quattro.

Una prima scelta poteva essere quella di farsi in qualche modo da parte. Avrebbe potuto rivolgersi così agli israeliti: “Fratelli, ciò che avete detto è molto importante e degno di attenta considerazione. Tornate nelle vostre tende, datemi un’ora di tempo e, poi, ci ritroveremo”. Queste le parole che il card. Martini mete in bocca a Mosè. Ma poi aggiunge subito che la richiesta di un’ora di tempo era solo un pretesto per partire di nascosto e sparire dalla circolazione. Dunque, una prima strada percorribile era quella di uscire dalla scena. Un uscire che poteva risolversi nella fuga, ma anche – non è da escludere – nella decisione estrema del suicidio. Scrive, infatti, il card. Martini – con un po’ di sorpresa per noi – che per gli uomini politici “il suicidio è una tentazione non così rara come si penserebbe” (p. 70).

Un’altra scelta poteva essere quella di venire a patti con il faraone con le armi in pugno e andare incontro alla morte da eroi. È la scelta di giocare il tutto per tutto, anche se il futuro non lascia intravedere alcuna speranza.

Una terza scelta poteva essere quella di venire a patti con il faraone e trovare con lui una forma di compromesso. Mosè stesso, quale persona più rappresentativa degli israeliti, si sarebbe fatto carico di questa ambasceria presso il faraone.

Infine, rimaneva un’ultima scelta quale possibile via di risoluzione: era la strada della fede, ossia la scelta di rimettersi ancora una volta nelle mani di Dio e affidarsi alla sua iniziativa. È la scelta di guardare a Dio come il pastore che non abbandona mai il suo gregge, tanto meno quando deve attraversare una valle oscura. Si tratta di credere profondamente alla fedeltà di Dio che avendo iniziato un’opera la porta a compimento.

Erano queste le possibili scelte verso le quali – secondo il card. Martini – Mosè avrebbe potuto orientarsi. Di fatto come ha reagito? Qual è stata la sua scelta?

Stando al testo biblico possiamo dire che la risposta è stata nel segno del coraggio della fede, anche se non priva di angoscia interiore. Vedremo più precisamente tutto questo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

16 Agosto 2015

Carissimi Parrocchiani,

accennavo l’ultima volta alla situazione drammatica in cui viene a trovarsi il popolo di Israele dopo essere uscito dall’Egitto. Ha l’impressione di essere finito in un vicolo cieco: il faraone è alle sua spalle che lo insegue con il suo esercito, davanti c’è il mar Rosso a sbarrare la strada. Tutto sembra perduto e il popolo invaso dalla paura grida al Signore la sua disperazione.

Il card. Martini, nel suo commento a questo episodio, per aiutare a renderci conto di come stavano le cose, ha costruito un racconto sapienziale. Lo chiama il “midrash della tenda”.

Scrive:

Immaginiamo la scena. La notte cala molto presto nel deserto; ora siamo all’inizio della notte. A qualche centinaio di metri si sente il va e vieni delle onde del mare, a sinistra si vede l’accampamento degli Ebrei.

Si accendono i primi fuochi; tutti sono affaccendati, gesticolano, raccolti in piccoli campanelli gli omini discutono; c’è qualcosa di grave nell’aria. Un momento di tragedia si sta avvicinando; qualcuno corre nel campo lontano, ritorna, porta notizie. L’eccitazione cresce.

Noi ci avviciniamo all’accampamento e chiediamo spiegazioni… Ci viene indicata una grande tenda al centro del campo: ci avviciniamo alla tenda e cerchiamo di vedere cosa sta avvenendo là dentro. C’è un uomo pallido, ansimante, senza parola; attorno a lui altri uomini con lunghe barbe e con i pugni tesi. Capiamo che quell’uomo deve essere Mosè e gli altri gli anziani di Israele. Cosa fa Mosè? È lì, sta zitto, sembra quasi paralizzato. E gli anziani d’Israele che fanno? Parlano, gridano, inveiscono, come fanno gli orientali quando si adirano. Cerchiamo di capire cosa dicono.

Uno dice: “Ecco, Mosè, dove ci hai portato! Ti abbiamo creduto, pensavamo che Dio ti avesse parlato; e, invece, siamo qui a morire come topi: o ci gettiamo in mare e moriamo annegati, o ci lasciamo uccidere dal faraone. Ecco deve siamo: è la fine per Israele!”.

Un altro si alza e dice: “Credevamo che tu, Mosè, fossi cambiato; ti conoscevamo imprudente e cocciuto, ma credevamo che il deserto ti avesse giovato. Invece, sei rimasto proprio uguale a quello che eri. E ci hai fatto di nuovo precipitare nel disastro”.

Un terzo: “ Fratelli ascoltatemi: noi abbiamo delle armi (infatti, dice il v. 16 del cap. 13: ‘Gli israeliti bene armati uscirono dal paese d’Egitto’); è vero che gli egiziani sono potentissimi, ma se andremo contro di loro, almeno chiuderemo la nostra storia gloriosamente. Moriamo da eroi e diamo lode a Jahvé cadendo con le armi in pugno!”.

Un quarto, più venerabile degli altri, dice: “Fratelli, ascoltatemi: ho molta esperienza della vita. Conosco bene Mosè e non ho avuto molta fiducia in lui nemmeno quando è tornato; capivo che era un visionario. Tuttavia ascoltatemi: il faraone, lo conosco, non è cattivo; inoltre, ha bisogno di noi, quindi non ha nessuna intenzione di sterminare il nostro popolo, ma anzi ha tutto l’interesse a reintegrarci nella nostra situazione. Siamo utili e non tentiamo Dio: la nostra posizione è insostenibile. Mandiamo quindi un’ambasceria al faraone; Mosè non si faccia proprio vedere; vadano invece alcuni dei nostri uomini saggi a dirgli: ‘Abbiamo peccato, riaccoglici, siamo pronti a tornare indietro: ci siamo fidati di quest’uomo che ci ha ingannati”. Poi, il tono di questo vecchio si fa più suadente, più forte: “Fratelli, ascoltatemi: il faraone significa la sicurezza, la pace, il pane per i nostri figli: non rigettate questa offerta, non siate pazzi”.

Un altro si alza e dice: “E se veramente Dio avesse parlato a Mosè? Cosa faremo: andremo contro Dio?”. Ma un altro lo contraddice: “No, non è possibile, Dio non può abbandonare il suo popolo. La nostra situazione è disperata: come può Dio volere la nostra disperazione?.

Don Luigi Pedrini

02 Agosto 2015

Carissimi Parrocchiani,

continuando il nostro cammino in compagnia di Mosè giungiamo all’episodio centrale dell’Esodo: il passaggio del Mar Rosso. La liturgia della veglia pasquale lo propone come il testo fondamentale della celebrazione della Pasqua.

A rigor di termini dobbiamo dire che propriamente il racconto della Pasqua si trova nel capitolo 12 del libro dell’Esodo dove si parla della cena pasquale consumata nelle case degli israeliti. Ma la tradizione cristiana ha allargato il significato del termine pasquale fino a comprendere il passaggio del Mar Rosso. Anzi, questo episodio si è imposto fino a diventare il centro di tutti gli eventi legati alla Pasqua ebraica.

La centralità di questo avvenimento è pure messa in risalto dalla menzione che ne fa il solenne inno dell’Exultet all’inizio della veglia pasquale quando proclama : Questa è la notte in cui i figli di Israele hanno attraversato il Mare Rosso a piedi asciutti.

Nel racconto di questo avvenimento possiamo distinguere tre parti: i vv. 5-10 che possiamo intitolare – facendo nostra la proposta del Card. Martini – “la notte della grande paura”; i vv 11-15 che riferiscono come Mosè ha reagito in questa notte; i vv. 16ss che raccontano il passaggio del Mar Rosso.

Nei vv. 5-10 è ben descritta la situazione drammatica che vivono gli Israeliti subito dopo l’uscita dall’Egitto: l’impressione è di trovarsi in un vicolo cieco. Alle loro spalle c’è il faraone che, pentitosi di aver loro permesso di lasciare l’Egitto, li sta inseguendo con il suo esercito; davanti hanno l’ostacolo insormontabile del Mar Rosso. In questa situazione in cui tutto sembra perduto sono presi dall’angoscia: ebbero grande paura e gridarono al Signore (Es 12,10).

Noi che leggiamo il racconto non possiamo non rimanere stupiti di quanto va accadendo: Dio che ha agito con mano forte contro l’Egitto, tanto da piegare anche il cuore indurito del faraone ora sembra aver abbandonato il suo popolo.

In realtà, leggendo attentamente la Scrittura, scopriamo che questo comportamento è un po’ una costante dell’agire di Dio. Pensiamo ad Abramo che dopo aver accolto l’invito del Signore a lasciare la propria terra, si mette in cammino, entra nella Terra di Canaan, incoraggiato dalla promessa di un futuro fecondo per lui e per tutta la sua famiglia e, tuttavia, è costretto a lasciarla molto presto, perché in quella terra c’è la carestia: proprio nella terra in cui Dio l’ha inviato e che dovrà diventare la ‘sua’ terra si fa la fame. Che stranezza!… Ma pensiamo anche a Maria che dopo aver dato la disponibilità a Dio che le sta chiedendo di diventare la madre del Messia, va incontro all’incomprensione di Giuseppe, al disagio di una nascita in totale povertà, alla prova di vedersi perseguitata e di dover fuggire in Egitto per salvare la vita del bambino. Davvero è strano l’agire di Dio.

Forse la spiegazione più plausibile al riguardo è questa: Dio volutamente priva chi si affida a lui di ogni sicurezza umana perché sia evidente che è grazia non solo la chiamata, ma anche il modo con cui essa viene realizzandosi. Tutto va a compimento, ma non anzitutto per le nostre forze, ma per la fedeltà di Dio verso di noi. Israele sta muovendo, per ora, solo i primi passi in questa direzione.

Don Luigi Pedrini

26 Luglio 2015

Carissimi Parrocchiani,

nella riflessione della scorsa settimana abbiamo abbozzato qualche risposta alle domande: “Chi è il faraone in noi? Chi è Mosè in noi?”.

Completiamo quelle osservazioni aggiungendo che il far crescere in noi Mosè e non il faraone è un’opera mai realizzata una volta per tutte. È piuttosto una meta verso la quale occorre incamminarsi con decisione e costanza.

San Gregorio di Nissa, nella sua opera La vita di Mosè, ha una bella riflessione sul tema del progresso spirituale. Scrive il santo che quando in gioco c’è la nostra crescita nelle virtù, la perfezione ha un solo limite: quello di non averne alcuno.

Per questa ragione – continua san Gregorio – san Paolo non si è mai considerato nel suo cammino di fede un uomo arrivato. Anzi, correndo nella via delle virtù, non ha cessato mai di “protendersi verso il futuro” (Fil 3,13). Egli reputava pericoloso nella vita spirituale smettere di correre e fermarsi. E ne dà anche la motivazione: come la fine della vita è inizio della morte, così smettere di correre nella via della virtù significa iniziare a correre in quella del vizio.

Dunque, la vita dell’uomo non è mai ferma e non raggiunge mai un punto stabile: è sempre in cammino. E il cammino può essere nella giusta direzione, cioè verso la crescita delle virtù; oppure, può essere nella direzione sbagliata, sulla strada che allontana da una vita virtuosa. Dobbiamo fare un grande sforzo per non perdere la perfezione acquisita e per conseguire la perfezione di cui siamo capaci. Non è forse l’attitudine a tendere a un bene sempre maggiore a costituire la perfezione della natura umana?

Come stimolo e aiuto a rimanere persone in cammino san Gregorio suggerisce di accogliere la Scrittura come propria parola e di valorizzare, in particolare, quei testi che presentano persone di fede che sono state esempi luminosi di virtù.

E volendo indicare una persona della Scrittura quale modello di fede particolarmente significativo, cioè quale esempio di virtù provata che possa svolgere per noi la funzione di faro, suggerisce proprio la figura di Mosè. Il suo esempio mostra chiaramente come sia possibile far approdare l’anima al porto tranquillo della virtù, in cui non sarà più esposta alle tempeste della vita e in cui non si rischierà più di naufragare negli abissi del peccato sotto gli urti delle ondate successive delle passioni.

Facendo nostra questa consegna di Mosè quale esempio di fede da imitare, ci disponiamo in sua compagnia a riprendere il cammino.

Don Luigi Pedrini

19 Luglio 2015

Carissimi Parrocchiani,

avviandoci a concludere questa riflessione nella quale abbiamo posto attenzione al faraone e a Mosè, principali protagonisti della vicenda della ‘dieci piaghe’, ci domandiamo cosa può dire tutto questo a ciascuno di noi. Più precisamente possiamo porci questa duplice domanda: chi è il faraone in noi? Chi è Mosè in noi?

Quanto alla prima domanda possiamo rispondere che noi vestiamo i panni del faraone ogni qualvolta ci lasciamo dominare da quelle affezioni disordinate che ci impediscono di donarci in modo disinteressato, di amare e di perdonare i nostri fratelli. Nel faraone possiamo vedere anche quella preoccupazione per noi stessi e per la nostra immagine che in alcune situazioni in cui ci dobbiamo esporre pubblicamente ci rende meno naturali, meno noi stessi.

Oltretutto bisogna considerare che questo ‘faraone’ che spadroneggia nel cuore è una forza invasiva e subdola. Il faraone d’Egitto si presentava come una persona perbene, nobile, aperta al dialogo. Ma, poi, all’atto pratico, doveva far valere la sua autorità e la sua immagine di ‘faraone’ e per questo poneva dei veti anche quando comprendeva che la scelta giusta sarebbe stata quella di andare oltre gli angusti confini del potere e del tornaconto personale.

Gesù nel vangelo ricorda che la scaturigine di tutte queste resistenze faraoniche va cercata nel cuore: dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male (Mc 7,21). Sta lì la radice degli atteggiamenti faraonici di sopraffazione che spingono a spadroneggiare sugli altri. Da parte nostra è impossibile estirpare del tutto queste radici: quello che possiamo fare è non stancarci di contrastarle perché la loro presenza non si trasformi in un dominio dispotico che ci priva di quella libertà di amare a cui il Signore ci chiama.

Quanto alla seconda domanda – chi è Mosè in noi? – possiamo dire che stiamo camminando sulle orme di Mosè ogni qualvolta che, assecondando l’azione dello Spirito Santo, ci mettiamo davanti alla realtà non con un atteggiamento di possesso, ma di accoglienza.; ogni qualvolta siamo disposti a metterci in gioco per cercare di capire la realtà (come Mosè che vuole avvicinarsi a vedere per capire come mai il roveto brucia senza consumarsi). Ancora, siamo sulle orme di Mosè ogni qualvolta siamo disposti a farci carico delle situazioni senza cedere alla precipitazione, senza volerle padroneggiare ad ogni costo: questo perché crediamo che Dio sa bene dove vuole condurci e, pertanto, camminiamo con pazienza, accettando anche i tempi lunghi, senza scoraggiarci di fronte alle difficoltà. E, infine, camminiamo al passo di Mosè ogni qualvolta facciamo spazio alla carità come forza che pazienta, si adatta, si piega e, tuttavia, è tenace nel perseguire il fine a cui mira.

Don Luigi Pedrini

12 Luglio 2015

Carissimi Parrocchiani,

al chiarimento circa le dieci piaghe quali ‘ punizioni’ inflitte all’Egitto ne aggiungiamo un secondo circa il tema dell’indurimento del cuore del faraone. L’espressione secondo la quale Dio ‘indurisce’ il cuore del faraone rendendolo ostinato ricorre frequentemente nel racconto delle dieci piaghe (cfr. 4,21; 7,3.14.22; 8,11.15.28, ecc.).

Per fare luce sul senso di questa espressione dobbiamo precisare che l’indurimento del cuore è quell’atteggiamento interiore per cui non si vuole recedere dalla propria posizione, anzi ci si irrigidisce, nonostante si percepisca interiormente che sarebbe giusto cedere, cambiare posizione e venire incontro alla richiesta fatta.

Il cedere alla richiesta di Mosè appariva al faraone come una compromissione del suo potere. E dal momento che questo gli sembrava inaccettabile, ha reso sempre più duro il suo cuore.

Generalmente a questo atteggiamento interiore si arriva o per la strada dell’ostinazione oppure per quella della debolezza.

Ci si indurisce per ostinazione quando ci si attacca gelosamente alle proprie posizioni, idee, vedute. Si può incontrare questo atteggiamento non solo al di fuori in chi ha posizioni diverse dalle nostre, ma anche nei nostri ambienti in chi è convinto di avere in mano la verità e, di conseguenza, non cede perché vuole difendere la propria identità ed essere fedele alla propria storia.

Ci si indurisce, invece, per debolezza quando sperimentando il nostro limite nell’amare le persone, specie quelle che ci hanno creato difficoltà o ci hanno fatto dei torti. decidiamo di comportarci nel rapporto con gli altri – uso l’espressione di Gesù – così come fanno i pagani (Lc 6,31-35). E allora riserviamo il saluto solo a quelli che ci salutano; facciamo del bene a quelli da cui possiamo riceverne; sorridiamo a chi ci sorride o alle persone che ci incutono un po’ di timore. Questa debolezza è, in fondo, la nostra paura di perdere, come il faraone e, non essendo disposti a questo, finiamo per indurire il cuore. Anzi, ultimamente, alla radice di questa debolezza sta la paura di quel ‘perdere la vita’ che, secondo la parola di Gesù, è la sola strada che ci permette di realizzare veramente noi stessi e di essere suoi discepoli.

In questo modo, finiamo, come dice san Paolo, per fare il male che non vogliamo. Vediamo il bene, ma le nostre rigidità interiore ci impediscono di attuarlo. E allora ecco che il Signore ‘indurisce il nostro cuore’, cioè ci fa conoscere i limiti che ci portiamo dentro, permette che battiamo la testa, per renderci conto che c’è un potere faraonico in noi che vuole fare da padrone.

Per questa strada impariamo a gridare a Lui e a chiedere che la sua misericordia ci purifichi e ci salvi.

Don Luigi Pedrini

05 Luglio 2015

Carissimi Parrocchiani,

il racconto delle dieci piaghe inflitte all’Egitto al fine di convincere il faraone a lasciar partire Israele e permettergli di tornare in patria, può suscitare in noi qualche perplessità. Infatti, sembra rivelare un volto di Dio che contrasta con l’immagine del Dio misericordioso al quale continuamente Gesù ci rimanda: qui vediamo non un Dio che perdona, ma una Dio che ‘punisce’.

È necessario allora intendere bene il significato delle dieci piaghe: è legittimo parlarne in termini di punizioni da parte di Dio?

Al riguardo, dobbiamo constatare che la categoria di punizione in rapporto a Dio non è estranea alla Scrittura. Questa categoria fa la sua comparsa già all’inizio del libro della Genesi, quando Dio interviene per ‘punire’ l’uomo e la donna a motivo della loro disobbedienza.

In realtà ciò che la Scrittura presenta in termini di castigo è il male che l’uomo fa a se stesso nel momento in cui opera in modo contrario ai dettami di Dio. Nel nostro caso, le piaghe d’Egitto sono il male che il faraone e il popolo egiziano infliggono a se stessi rifiutandosi di accogliere la parola liberatrice di Dio e, di conseguenza, restando prigionieri dei propri condizionamenti.

Sono particolarmente illuminanti in proposito due considerazione del Card. Martini. Egli, anzitutto, fa notare che

 

Tutte le volte che non abbiamo ascoltato la Parola del Signore, che ci voleva più veri, più autentici, più rispondenti all’amore, più pronti ad offrire un servizio che a esigerlo, abbiamo sentito in noi dei segni di squilibrio interiore; esso sono la manifestazione delle piccole schiavitù e dei condizionamenti a cui cediamo. Sono tutte quelle forme di malessere che ci rodono interiormente: forme di paura nell’affrontare alcune situazioni, certe forme penose e prolungate di stanchezza, certe forme di malumore, certe incapacità a pregare…. Insomma, il non saper essere felici. Tutte le volte che non c’è piena felicità, vuol dire che c’è qualcosa, qualche condizionamento che ci frena… (C.M. Martini, Vita di Mosè, Borla, Roma 19845, p. 56).

 In secondo luogo, egli afferma che è possibile parlare di un ‘castigo fondamentale’ al quale si possono ricondurre, poi, tutti gli altri. Tale castigo è, a suo parere, l’incapacità di amare”, cioè “l’incapacità di realizzare effettivamente l’amore di Dio, soprattutto quello del prossimo”. Questo perché

 L’amore di Dio può anche essere facile; difficile è quello del prossimo, che consiste nel rispondere alle vere situazioni di disagio del mio fratello, anche là dove il mio fratello non merita il mio aiuto, anzi lo demerita. Se noi non siamo capaci di affrontare queste situazioni, ecco che ne consegue scontentezza, disagio e disgusto, che coinvolgono le persone, le comunità, i gruppi, le istituzioni: è il castigo dell’Egitto (Idem, pp. 56-57).

 

Don Luigi Pedrini

28 Giugno 2015

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver rivolto la nostra attenzione alla figura del faraone, ora guardiamo al secondo grande protagonista di questa vicenda che designiamo comunemente con il titolo di ‘piaghe d’Egitto’.

Chi è dunque Mosè? Mosè appare un uomo profondamente libero di fronte al faraone. La consapevolezza di essere mandato dal Signore per questa missione e di poter contare sulla forza dello Spirito di Dio le rende capace di pazientare, di adattarsi e, nello stesso tempo, di mantenersi fermo, tenace nel richiedere ciò che è giusto.

Mosè affronta questa non facile situazione da uomo pienamente affidato alla chiamata di Dio e, di riflesso, del tutto distaccato dalle proprie risorse umane.

Al riguardo, è significativo il suo diverso atteggiarsi in questa situazione rispetto all’iniziativa presa a suo tempo al principio della vita adulta. Allora aveva optato per la strada della violenza, scelta ritenuta necessaria per prendere in mano la situazione con efficacia. Ora, invece. imbocca la strada della persuasione senza cedere alla tentazione di imporsi con la forza. È significativo al riguardo che nella prima iniziativa Mosè non dica una parola e passi subito all’azione; nella seconda, invece, fa leva sulla parola, sul dialogo che accompagna anche con segni che danno autorità e credibilità a ciò che va annunciando.

Così da una parte, Mosè è l’uomo che si fa portatore della Parola di Dio al faraone. Nel confronto con il faraone incontriamo continuamente il ritornello. “Va’ dal faraone e parlagli…”. E Mosé, in fedeltà alla Parola, accetta ogni volta di ritornare dal faraone e, pur riscontrando in lui un’ostinazione dura a morire, insiste perché abbia a credere nella Parola del Signore.

Dall’altra, Mosè è anche l’uomo dei segni. Le dieci piaghe d’Egitto sono tra i segni più significativi da lui compiuti. Sono segni in progressione: si passa dall’iniziale puro segno dimostrativo per cui Aronne getta davanti al faraone il bastone che si trasforma in serpente (segno che non viene accolto, perché i sapienti d’Egitto riescono a fare la stessa cosa) ai segni sempre più molesti e più duri (le mosche, l’acqua che non si può bere…) fino alla decima piaga (la morte dei primogeniti egiziani) che vincerà la durezza di cuore del faraone e lo spingerà ad acconsentire alla richiesta avanzata da Mosè.

A questo punto si impone, però, la necessità di far luce sul significato da attribuire alle dieci piaghe, dato che, a prima vista, sembrano mostrare un Dio che castiga.

Ne parleremo la prossima settimana!

Don Luigi Pedrini