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12 Febbraio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 12 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci dall’episodio misterioso della lotta di Giacobbe con Dio, voglio raccogliere due insegnamenti
Il primo lo traggo da questo particolare strano dell’episodio: Giacobbe risulta perdente nella lotta tanto che ne esce sciancato, eppure alla fine viene riconosciuto vincitore. Si può dire che egli abbia vinto capitolando, arrendendosi al suo “assalitore”.
In questo capitolare davanti a Dio Giacobbe ha realizzato il vero attraversamento dello Iabbok: non consiste nel passaggio di un torrente reso difficile dalle tenebre della notte, ma nel passaggio dalla sponda dell’attaccamento alle proprie sicurezze e ai propri beni affettivi alla sponda dell’affidamento a Dio.
Il passaggio dello Iabbok è, allora, anche il nostro passaggio per diventare veramente discepoli. A questo riguardo, la vicenda di Giacobbe ci insegna una cosa davvero degna di nota: questo passaggio si fa capitolando, perché è così che si consegue, paradossalmente, la vittoria. Scrive in proposito il card. Martini:

“Solo abbandonandomi perdutamente a Lui, solo capitolando nelle sue mani potrò riprendere nelle mie il bandolo della matassa intricata della vita” e arrendendomi potrò scoprire in Lui “un Dio tenero come un Padre e una Madre, che non rinnega mai i suoi figli. Un Dio umile, che manifesta la sua onnipotenza e la sua libertà proprio nella sua debolezza (Cfr: C. M. Martini, Parlo al tuo cuore, Milano 1996, pp 18-19).

Questo arrendersi per lasciarsi vincere da Dio non è senza fatica. È una lotta più dura delle fatiche esterne che possiamo sopportare; tuttavia, questa lotta conduce a un frutto di libertà, di mitezza, di pace. Una conferma significativa in proposito ci è offerta da queste parole del patriarca ecumenico Atenagora:

Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”. Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”.

Il secondo insegnamento che si può ricavare da questo episodio riguarda la preghiera. Ma di questo parlerò la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

05 Febbraio 2012

Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>>. Giacobbe rispose: <<Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!>>. Gli domandò: <<Come ti chiami?>>. Rispose: <<Giacobbe>>. Riprese: <<Non ti  chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli  uomini e hai vinto!>>. Giacobbe allora gli chiese: <<Dimmi il tuo nome>>. Gli  rispose: <<Perché mi chiedi il nome?>>. E qui lo benedisse (Gen 32,27-30).

San Leonardo Confessore (Linarolo), 05 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

sostiamo ancora sul dialogo che si intavola tra Dio e Giacobbe nella notte della lotta misteriosa. Al centro del dialogo sta, oltre al cambiamento del nome di Giacobbe, il tema della benedizione. Quanto al nome già abbiamo detto; ora ci soffermiamo sulla benedizione.
Giacobbe chiede allo sconosciuto di sapere il suo nome e che gli dia la sua benedizione. Questa richiesta di essere benedetto testimonia un uomo che si è arreso e che, d’ora in avanti, non vuole più riporre la fiducia nelle proprie sicurezze umane, ma abbandonarsi alla fedeltà e alla benevolenza di Dio.
La richiesta è accolta a metà: non gli è concesso di sapere il nome, ma gli è concessa la benedizione. Da adesso Giacobbe sa di poter contare sulla fedeltà di Dio: anche se dal combattimento esce claudicante, non importa. Sarà un uomo zoppicante, ma pur sempre benedetto da Dio.
Così, Giacobbe che ha sempre vissuto nei suoi calcoli umani, adesso, improvvisamente, si apre al mistero di Dio. Dio, già nella notte del sogno, aveva fatto irruzione nella sua vita; ma, poi, era rimasto come nell’ombra agli occhi di Giacobbe, quantunque l’abbia accompagnato in tutto il suo cammino. Ora, Dio torna a manifestarsi e Giacobbe lo accoglie con una disponibilità totale..
Proprio in forza di questa accoglienza, Giacobbe diventa a pieno titolo il terzo anello di quella discendenza che, a partire da Abramo, si prolungherà nel tempo per arrivare fino a Gesù, cioè al dono del Figlio.

Allora Giacobbe  chiamò quel luogo Penuel <<Perché  disse  ho visto Dio faccia a faccia, eppure  la mia vita è rimasta salva>>. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e  zoppicava all’anca (Gen 32,31-32).

Secondo la tradizione biblica, Penuel significa “volto di Dio”. Giacobbe ha avuto il singolare privilegio di stare alla presenza di Dio e, tuttavia, ha avuto salva la vita.
Intanto, le ombre della notte si diradano, ormai è imminente il sorgere della luce che ridà  alle cose i giusti contorni e fa in modo che non incutano più paura. Giacobbe ora è pronto per incontrare il fratello. Grazie a quello che ha vissuto nella notte, grazie all’incontro con Dio, ormai la luce ce l’ha dentro. Ha contemplato il volto di Dio e, per questo, ora, il volto di Esaù non fa più paura.

Don Luigi Pedrini

29 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo ora il dialogo che si intavola tra Dio e Giacobbe

Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>>. Giacobbe rispose: <<Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!>>. Gli domandò: <<Come ti chiami?>>. Rispose: <<Giacobbe>>. Riprese: <<Non ti  chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli  uomini e hai vinto!>>. Giacobbe allora gli chiese: <<Dimmi il tuo nome>>. Gli  rispose: <<Perché mi chiedi il nome?>>. E qui lo benedisse (Gn 32,27-30).

Il dialogo si impernia su due elementi fondamentali: il nome e la benedizione. Anzitutto, il nome: il  personaggio misterioso chiede a Giacobbe il nome e saputolo lo cambia: d’ora in avanti non si chiamerà più Giacobbe, ma Israele.
Il cambiamento del nome attesta l’autorità di questo sconosciuto, ma insieme anche la volontà di stabilire una familiarità nuova, una nuova appartenenza. Giacobbe esce da questa vicenda cambiato, con una nuova identità: nasce come Israele.
E, così, scopriamo dove affonda la radice di Israele: proprio in questo conflitto tra Dio e Giacobbe, un conflitto che lo porta ad aggrapparsi disperatamente a Dio, il popolo di Israele ha sempre visto la propria origine e la propria identità.
È interessante anche la spiegazione del nome: “hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. In realtà è il contrario e il passo zoppicante con cui Giacobbe esce da questo combattimento lo testimonia. Eppure, Giacobbe ha vinto: la sua vittoria consiste proprio in questo aggrapparsi totalmente a Dio. Il suo arrendersi a Dio è in realtà la sua vittoria e Dio, d’altra parte, non voleva ottenere da lui nient’altro che questo: far sì che Giacobbe arrivasse ad affidarsi a lui, nonostante tutto.
In questo modo, Dio è riuscito in una notte, con la lotta, a ottenere questa consegna da un uomo che, fino ad allora, aveva vissuto facendo leva sulla propria intelligenza e sulla propria scaltrezza, cavandosela peraltro egregiamente nelle diverse situazioni della vita.

Il secondo elemento al centro del dialogo è la benedizione. Ma su questo ci soffermeremo la prossima volta.

 

Don Luigi Pedrini

22 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo ora i passi della lotta tra Giacobbe e Dio attraverso la testimonianza del capitolo 32. Certo rimane un fatto misterioso e tutti i commenti a questo testo non si esimono dal farlo notare. Lutero, ad esempio, afferma che “questo passo è ritenuto fra i più oscuri di tutto l’Antico Testamento”. E aggiunge che “non  c’è da stupirsene: poiché si tratta di quella sublime tentazione non contro la carne e il sangue o contro il diavolo, ma contro Dio stesso”.

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui  fino allo spuntare dell’aurora (Gn 32,25)

Un uomo lotta con Giacobbe. Letteralmente, andrebbe tradotto: “qualcuno lottò con lui”. Il testo è molto generico; non svela direttamente l’identità di questo personaggio (solo nei versetti seguenti, cfr. v. 29; v. 31, si precisa che si tratta di Dio stesso). La notte, il fatto della lotta, la non identificazione dell’assalitore, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere ulteriormente misterioso l’episodio.

Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì  all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>> (Gn 32,26-27).
Giacobbe, quantunque aggredito, non solo riesce a difendersi, ma anche – stando al testo – si difende bene. Infatti, il suo assalitore per avere la meglio su di lui ricorre a un colpo mancino: lo colpisce irrimediabilmente all’anca, così che d’ora in avanti sarà un uomo zoppicante.
Ciò nonostante, Giacobbe non solo continua a resistere al suo assalitore (“continuava a lottare”), ma anche lo trattiene. Stranamente, anziché svincolarsi, si aggrappa proprio a Lui.
E’ veramente una stranezza: proprio nel momento in cui Giacobbe ha l’impressione che tutto stia fallendo e gli stia sfuggendo dalle mani, sente di doversi aggrappare a quel Dio, con il quale, in fondo, ha combattuto giorno per giorno. La sua vita è stata una sfida con se stesso e con Dio. Ora, nel momento critico in cui si trova, nel quale potrebbe anche perdere tutto, è pronto per il passo decisivo: consegnarsi a lui, aggrapparsi a lui, fidarsi di lui.
Si aggrappa, dunque, letteralmente al suo avversario, fino a non lasciarlo, fino a non voler demordere per nessuna ragione, al punto che colui che lo ha assalito a un certo punto gli parla e gli dice: Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora (Gn 32,27).
Queste parole che infrangono il silenzio sono l’inizio di un dialogo tra i due protagonisti, un dialogo che noi vedremo la prossima volta. Prima, però, di concludere voglio sottolineare che nella caparbietà di Giacobbe possiamo vedere qualcosa di profetico. In fondo è l’anticipazione di quella caparbietà che Gesù raccomanda quando, nella preghiera, ci invita a “chiedere con insistenza, senza mai scoraggiarsi”.

 

Don Luigi Pedrini

15 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

continuiamo a metterci in ascolto della vicenda di Giacobbe. Egli si prepara ad entrare nella terra promessa, la terra di Abramo, del padre Isacco. Si tratta solo di attraversare un torrente; una volta al di là, dovrà aspettarsi da un momento all’altro l’arrivo, già preannunciato, di Esaù.
Giacobbe, stranamente, decide di attraversare il torrente nella notte. Manda avanti tutta la sua famiglia (le mogli, i figli, averi compresi), mentre egli li segue un po’ più arretrato. Ma a questo punto accade un fatto singolare: il testo narra che un personaggio misterioso – che poi si rivela essere Dio stesso – assale il patriarca e lotta con lui per tutta la notte.
Dunque, all’episodio notturno del sogno viene ad aggiungersi quest’altro episodio notturno: insieme costituiscono i due pilastri della vicenda spirituale di Giacobbe.
Ma seguiamo da vicino il racconto biblico.

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi  undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e  fece passare anche tutti i suoi averi Gn 32,23-24).

La vicenda si apre con un’annotazione geografica: lo Iabbok è un affluente che sfocia nel Giordano, una cinquantina di chilometri a nord del Mar Morto. Quantunque abbia un breve tragitto, tuttavia deve superare un dislivello di circa 1000 metri: nasce all’altezza di 738 metri e si immette nel Giordano quando è già a meno 350 metri sotto il livello del mare. Quindi, si comprende che le sue acque siano vorticose e pericolose da attraversare.
Il testo, in precedenza, fa menzione di un bastone che ha facilitato a Giacobbe l’attraversamento del Giordano (Gn 32,11); qui, non si dice niente, come a dire che Giacobbe vive tutto questo spoglio di sicurezze umane. Inoltre, è notte e il buio incute sempre un senso di paura.
L’attraversamento di questo torrente non significa per Giacobbe soltanto il passaggio materiale da un luogo all’altro, cioè lasciare la pianura di Aram ed entrare ormai nella terra promessa. Per lui significa anche un passaggio a livello spirituale: passare dal luogo di un’attività in proprio al luogo della promessa e dell’obbedienza. Lascia alle proprie spalle un passato sicuro e florido costruito con le sue mani, mentre davanti ha soltanto le promesse di Dio come garanzia e, insieme, l’incognita dell’incontro con il fratello.
Stranamente, contro tutte le usanze, Giacobbe fa guadare il torrente di notte. Tutto avviene nel buio della notte. Eppure, questa è la notte in cui finalmente Giacobbe – sembra un paradosso – arriva definitivamente a veder chiaro nella propria vita. Infatti, l’episodio misterioso della lotta gli svela che, fino a quel momento, tutta la sua vita è stata, in fondo, una lotta con Dio. In tutte le maniere ha voluto provare a se stesso e agli altri di essere capace di stare in piedi da solo; ha costruito passo per passo con le sue forze e la sua furbizia la sua piccola “torre di Babele”. Ora, in preda alla paura, scopre tutte le crepe di questa storia di cui egli andava fiero. Improvvisamente, la paura, la lacerazione familiare, la preoccupazione per il domani lo fanno sentire un uomo profondamente solo. In questa situazione interiore avviene la lotta misteriosa con Dio. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

8 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 8 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa natalizia riprendiamo la vicenda di Giacobbe. L’abbiamo lasciato in preda alla paura, al pensiero che il fratello Esaù, che non vede da parecchi anni, gli sta andando incontro con una scorta di quattrocento uomini. In questa situazione drammatica, la scelta di Giacobbe è sorprendente: non più come in passato il ricorso ad un’astuzia, ma il ricorso alla preghiera.

Poi Giacobbe disse: “Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: Ritorna al tuo paese, nella tua patria e io ti farò del bene,  io sono indegno di tutta la benevolenza e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio bastone soltanto avevo passato questo Giordano e ora sono divenuto tale da formare due accampamenti. Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini! Eppure tu hai detto: Ti farò del bene e renderò la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non si può contare” (32,11-13)

È una preghiera fatta con umiltà, ben diversa da quella fatta nella notte del sogno. Là si manifestava come un uomo fiducioso nelle proprie forze, al punto da avanzare quasi la pretesa di voler insegnare a Dio e di dettargli le sue condizioni. Ora, invece, in questa preghiera si manifesta come un uomo che ha preso coscienza del proprio limite di creatura. Infatti, si affida a Dio dicendogli: “Salvami”
Questa espressione “Salvami” – ha affermato recentemente Benedetto XVI – “è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sentendo di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli” avverte il “bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte…”.  Questo grido – continua Benedetto XVI – pone l’uomo in tutta verità davanti a Dio: infatti, “Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati” (Messaggio Urbi et Orbi, Natale 2011)
Dunque, Giacobbe prega in tutta verità e nella preghiera fa memoria della promessa di Dio: “Mi hai detto: ritorna al tuo paese… ti farò del bene e renderà la tua discendenza come la sabbia del mare”. È un particolare significativo perché sta a dire che ormai, per Giacobbe, conta solo questa luce che promana dalla promessa di Dio. Tutto il resto non conta più niente. Non conta più la ricchezza accumulata, il lavoro svolto, l’esperienza acquisita, i successi ottenuti. Anche la famiglia passa in secondo piano. Ciò che conta è il fatto che Dio gli ha detto: “ritornerai” e che farà brillare su di lui la sua benedizione. A questa promessa, che ormai sta diventando il filo conduttore della sua vita, Giacobbe si affida.
Il suo affidamento si esprime con parole scarne e semplici. Si potrebbe dire che è l’essenzialità e la semplicità di un uomo che sta muovendo i primi passi della sua esperienza di Dio e, quindi, fatica ad esprimersi in modo compiuto. Ma forse, più verosimilmente, la sua è la fatica tipica del credente che, davanti all’esperienza autentica di Dio, sperimenta l’inadeguatezza delle parole umane per esprimere ciò che sta vivendo.

 

Don Luigi Pedrini

18 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Dicembre 2011

Mentre Giacobbe continuava il viaggio, gli si fecero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: “Questo è l’accampamento di Dio” e chiamò quel luogo Macanaim (Gen 32,2-3)

Carissimi Parrocchiani,

accennavo l’altra volta ad un’inaspettata presenza degli angeli sul cammino di Giacobbe che sta ritornando alla sua casa natale e si prepara all’incontro con il padre anziano Isacco e col fratello Esaù.
Cosa significa questo particolare? Sappiamo che gli angeli sono i messaggeri di Dio, coloro cioè  che aiutano l’uomo a leggere gli eventi all’interno della benevolente e misteriosa disposizione di Dio. Il fatto che Giacobbe “veda” gli angeli sul suo cammino sta a dire che egli è un uomo che va aprendosi alle illuminazioni di Dio e, di conseguenza, è in grado di percepire messaggi nuovi. Ora che i suoi occhi e il suo cuore si sono aperti, tutto è per lui portatore di un messaggio. Da quando si è messo in cammino, le persone che incontra, la terra che attraversa, il cielo che lo sovrasta, tutto parla un linguaggio nuovo. Giacobbe sta diventando un uomo “riflessivo” che, da adesso in avanti, non ha altro interesse se non quello di comprendere il messaggio che Dio vuole offrirgli.

Ma torniamo alla nostra vicenda. Ora Giacobbe è in procinto di rientrare nella sua terra natale. Pensando al prossimo incontro con il fratello, col quale ormai da tanti anni non ha più alcun contatto, e considerando i cattivi rapporti con cui si erano lasciati quando era fuggito dalla casa paterna, si rende conto che questo incontro merita un’attenta preparazione.

Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù, nel paese di Seir, la campagna di Edom. Diede loro questo comando: “Direte al mio signore Esaù: Dice il tuo servo Giacobbe: Sono stato forestiero presso Làbano e vi sono restato fino ad ora (Gen 32,4-5).

Con umiltà e rispetto Giacobbe fa i suoi preparativi. Rinuncia ad ogni presunzione e, contrariamente alla sua indole, ora non intende più fare alcun ricorso ad astuzie e a sotterfugi.
Ma ecco che cosa accade:

I messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: “Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattrocento uomini”. Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato; allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli. Pensò infatti: “Se Esaù raggiunge un accampamento e lo batte, l’altro accampamento si salverà”.

La notizia crea grande turbamento nel cuore di Giacobbe e una profonda angoscia si impadronisce di lui.

Don Luigi Pedrini

11 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 11 Dicembre 2011

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giacobbe che, in procinto di riprendere la via del ritorno nella sua terra natale, chiede alle mogli se sono disposte a lasciare il padre Labano e a seguirlo. Ed ecco la risposta e il seguito degli eventi.

Rachele e Lia gli risposero:

“Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua, dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro danaro? Tutta la ricchezza che Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fà pure quanto Dio ti ha detto”.

Allora Giacobbe si alzò, caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistati, il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram, per ritornare da Isacco, suo padre, nel paese di Cànaan.
Làbano era andato a tosare il gregge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre.
Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’Arameo, non avvertendolo che stava per fuggire; così potè andarsene con tutti i suoi averi. Si alzò dunque, passò il fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad (Gen 31,14-21).

Dalle parole di Rachele e di Lia si comprende che i rapporti che avevano con il padre non erano dei migliori; accettano la proposta di Giacobbe e si mettono in cammino.
Tutto avviene in fretta, perché Giacobbe intende sfruttare i pochi giorni di vantaggio che ha sullo zio, impegnato ancora per un po’ di tempo nella tosatura del gregge. Il suo viaggio di Giacobbe, però, procede molto lentamente avendo con sé le mogli e i bambini e, così, lo zio, una volta informato, lo insegue e lo raggiunge quando ormai sta per entrare nella terra di Canaan.
Labano accusa il nipote ed egli si difende; chiede che gli siano restituiti gli idoli che teneva con sé, ma Rachele con l’inganno glielo impedisce. Alla fine, Giacobbe, approfittando della superstizione dello zio, riesce a convincerlo a non reagire in modo scomposto e, anzi, alla fine, zio e nipote si lasciano stringendo tra loro un patto di aiuto reciproco. Così, Labano ritorna a casa e Giacobbe, può, finalmente riprendere il suo cammino.
Da questo momento in avanti Giacobbe non è più l’uomo di prima e il testo biblico ne dà testimonianza. Infatti, a partire dal cap 32 ce lo descrive come un uomo che va assumendo i tratti dell’onestà e della religiosità; va progressivamente liberandosi dell’uomo vecchio che lo spingeva ad imbrogliare con le più abili astuzie e va rivestendo l’uomo nuovo che si rimette alla fedeltà di Dio. La voce che è tornata a farsi sentire ha acceso in lui il desiderio di andare fino in fondo, di veder chiaro nella sua vita e di riappropriarsi della sua storia. Si può dire che Giacobbe è un uomo che sta rinascendo: con uno sguardo nuovo sta imparando a guardare la vita. È significativo, al riguardo, il fatto che all’inizio del cap. 32 si parla, inaspettatamente, della presenza di angeli sul suo cammino. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

20 Novembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Novembre 2011

Carissimi Parrocchiani,
nel cap. 29 inizia il racconto della permanenza di Giacobbe presso lo zio Labano. Così si legge al v. 1: Poi Giacobbe si mise in cammino e andò nel paese degli orientali.
Lo zio l’accoglie prontamente e lo assume quale collaboratore nella custodia delle greggi. La capacità e l’intraprendenza di Giacobbe fanno sì che, ben presto, le condizioni economiche dello zio in poco tempo migliorino notevolmente.
Anche nella nuova situazione Giacobbe si dimostra l’uomo scaltro e intelligente che sa sempre trovare un rimedio ed escogitare espedienti di ogni tipo pur di ottenere il massimo rendimento. Come sempre, si muove con determinazione e senza scrupoli. Ne dà un saggio il giorno stesso in cui arriva presso lo zio: a motivo dell’utilizzo dell’acqua per abbeverare le greggi si era messo a questionare con i pastori del luogo e, poi, senza rispetto della regola che si erano dati proprio per garantire l’acqua a tutti in modo equo, fa abbeverare il gregge di Rachele, la figlia di Labano, giunta al pozzo in quel momento.
Lo zio rendendosi presto conto delle capacità del nipote, si preoccupa di trattenerlo il più possibile a lungo con sé. Accetta la sua richiesta di avere Rachele in sposa, ma in cambio gli chiede prima di lavorare presso di lui per sette anni. Giacobbe accetta; senonché, alla fine dei sette anni, lo zio gli dà in sposa Lia, sorella di Rachele, giustificandosi in forza degli usi del luogo secondo i quali era diritto della primogenita sposarsi prima della sorella minore. Tuttavia, gli assicura che manterrà la promessa fatta: avrà Rachele in moglie, ma dovrà lavorare ancora presso di lui per altri sette anni. Così, Giacobbe che con l’astuzia aveva beffato il fratello maggiore, ora si vede beffato a sua volta: l’astuzia si è presa gioco del suo amore.
Ad ogni modo, Giacobbe lavora con intelligenza, conclude affari, ottiene risultati sorprendenti. Le greggi diventano sempre più numerose e Labano, grazie a lui, si arricchisce notevolmente. Dopo parecchi anni, Giacobbe è ormai un uomo ben impiantato: ha avuto in moglie Lia, Rachele, da loro ha avuto figli: Lia, la moglie non amata, gli genera molti figli; Rachele, l’amata, solo dopo molti anni genera Giuseppe. Tra le due sorelle, però, scoppiano liti frequenti e Giacobbe deve continuamente mettere pace.
I rapporti con lo zio col tempo si incrinano. Labano riconoscendo nel nipote la causa della sua fortuna, cerca di sfruttarlo al massimo. Giacobbe, però, questa volta non si lascia più abbindolare da lui. Astutamente, trova il modo di costruirsi una fortuna tutta sua e al momento opportuno gli propone la divisione dei patrimoni. Lo zio vedendosi incapace di gestire da solo una fortuna economica  cresciuta a dismisura è costretto ad accettare. Ma precisa il testo biblico:
Giacobbe venne a sapere che i figli di Làbano dicevano:
“Giacobbe si è preso quanto era di nostro padre
e con quanto era di nostro padre si è fatta tutta
questa fortuna”.
Giacobbe osservò anche la faccia di Làbano e si accorse
che non era più verso di lui come prima.
Il Signore disse a Giacobbe:
“Torna al paese dei tuoi padri, nella tua patria e io sarò con te”.

Da questo momento Giacobbe matura la decisione di lasciare lo zio e ritornare a casa.

 

Don Luigi Pedrini

06 Novembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 06 Novembre 2011

Carissimi Parrocchiani,

Concludevo l’altra volta dicendo che Giacobbe si è svegliato da quel sogno con la percezione che qualcosa di straordinario era avvenuto nella sua vita. I versetti che seguono nel testo biblico ne danno conferma.

Allora Giacobbe si svegliò dal sonno e disse:
<<Certo, il Signore è  in questo luogo e io non lo sapevo>>.
Ebbe timore e disse: <<Quanto è terribile  questo luogo!
Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo>>.

Giacobbe, pur essendo ai primi passi del suo cammino di fede, è convinto che Dio in quel sogno si è fatto presente nella sua vita e gli ha parlato. La sua reazione è di meraviglia grata e di timore riverenziale allo stesso tempo. Sono i due sentimenti che autenticano sempre la vera esperienza di Dio: l’uomo sperimenta la meraviglia di sentirsi oggetto, senza alcun merito, della cura amorevole di Dio e, insieme, il timore riverenziale di chi avverte la propria creaturalità, il proprio limite e anche il proprio essere peccatore. Di qui l’atteggiamento umile del timore pieno di riverenza e rispetto.

Alla  mattina presto Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la  eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel,  mentre prima di allora la città si chiamava Luz.
Giacobbe fece questo voto:

<<Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo
e mi darà pane  da mangiare e vesti per coprirmi, ]se ritornerò sano e salvo
alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra,
che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio;
di quanto mi darai io ti offrirò la decima>>.

Giacobbe compie un atto di culto: la pietra che, durante la notte, gli è servita da guanciale per dormire, viene trasformata in un piccolo altare (una “stele”) sulla quale fa la sua preghiera (il suo “voto”) al Signore.
Si tratta di un vero atto di affidamento, espresso in un linguaggio molto umano e, persino, utilitaristico. In sostanza Giacobbe fa questa promessa al Signore: “Se Dio farà il bravo con me, quando tornerò, lo sceglierò come Dio, sarà per me il Signore e gli costruirò un santuario”. Dunque, Giacobbe detta le condizioni a Dio, lo sollecita a comportarsi bene nei suoi confronti, dimostrando di vivere il suo rapporto con Lui in termini di do ut des: “Se Dio mi darà tanto, mi impegnerò anch’io a fare la mia parte”.
Giacobbe è davvero all’”A-B-C“ della sua esperienza di Dio. Tuttavia, una luce nuova è entrata nella sua vita e anche se sembra subito scomparire non appena si rimette in viaggio, in realtà, è solo velata: quello che è avvenuto in quella notte rimane sedimentato nel profondo della sua coscienza e, col tempo, lo porterà ad uno sguardo nuovo sulla vita.

 

Don Luigi Pedrini