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13 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 13 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

ci avviamo a concludere la vicenda di Giacobbe, un uomo che, forgiato dalle prove della vita e raggiunto dall’iniziativa con cui Dio ha fatto irruzione nella sua vita, è ormai un credente maturo che desidera comprendere il senso degli avvenimenti per corrispondere in tutto al disegno di Dio su di lui.

Gli anni della maturità di fede sono, però, anche segnati da alcuni avvenimenti assai dolorosi: il comportamento riprovevole dei figli gli procura non poche sofferenze; la morte prematura di Rachele apre in lui una ferita profonda.

Un altro fatto doloroso viene ad aggiungersi in questa situazione già molto provata: la morte del padre Isacco.

 Poi Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre, a Kiriat-Arba, cioè Ebron, dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’età di centottant’anni. Poi Isacco spirò, morì e si riunì al suo parentado, vecchio e sazio di giorni. Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe (Gen 35,27-29)

 Dunque, la situazione che viene a crearsi attorno a Giacobbe è davvero tragica: i figli che commettono cose orrende; la perdita della moglie amata prima e, poco dopo, del padre.

Come vive Giacobbe tutto questo? Condivido quanto afferma, al riguardo, P. Stancari: “Giacobbe vive tutto questo con animo di penitente” (P. Stancari, I patriarchi, CENS, Milano 1994, p. 112). Nel dolore che lo ferisce egli coglie anche una misteriosa forza purificatrice del male che ha commesso in passato e che ha adombrato la sua vita. In questo modo, Giacobbe riesce dare un senso al suo dolore: non un dolore sterile foriero di morte, ma un dolore che ha la fecondità di un parto. “Là dove Giacobbe sembra condannato ad una dolorosa sterilità – scrive ancora P. Stancari – è, invece, sempre più disponibile all’incontro, alla buona accoglienza, al perdono, al gesto di pietà, alla compassione per ogni creatura” (Idem).

Con il v. 1 del cap 37 – nel quale si specifica che “si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero” – si conclude sostanzialmente la storia di Giacobbe. Anche se ancora presente ed espressamente nominato nei capitoli successivi, tuttavia, non è più ormai al centro dell’attenzione. Il nuovo protagonista è Giuseppe, il figlio primogenito generato da Rachele.

Termina qui il nostro commento alla vicenda di Giacobbe. Con la prossima volta inizieremo il commento al ciclo di Giuseppe, l’altra perla narrativa che il libro della Genesi offre dopo il ciclo di Abramo e quello di Giacobbe.

 

Don Luigi Pedrini

 

06 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 06 Maggio 2012

abbiamo già ricordato alcuni fatti dolorosi accaduti nella famiglia di Giacobbe e che feriscono il suo cuore. Dobbiamo, però, subito aggiungere che anche in mezzo a queste difficoltà, il dialogo tra Dio e Giacobbe non solo non si interrompe, ma si fa sempre più profondo.

Dio apparve un’altra volta a Giacobbe, quando tornava da Paddan-Aram, e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe. Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome”. Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: “Io sono Dio onnipotente. Sii fecondo e diventa numeroso, popolo e assemblea di popoli verranno da te, re usciranno dai tuoi fianchi. Il paese che ho concesso ad Abramo e a Isacco darò a te e alla tua stirpe dopo di te darò il paese”. Dio scomparve da lui, nel luogo dove gli aveva parlato (Gen 35,9-13).

Dunque, Dio interviene, parla a Giacobbe, gli cambia il nome (cioè, gli dona una nuova identità) lo chiama Israele (a significare il popolo che nascerà dalla sua discendenza e che porterà il suo nome), gli fa delle promesse.

Ma ecco il fatto doloroso che accade:

 Poi, levarono l’accampamento da Betel. Mancava ancora un tratto di cammino per arrivare ad Efrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere: anche questo è un figlio!”. Mentre esalava l’ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così, Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. Questa stele della tomba di Rachele esiste fino ad oggi (Gen 35,16-20).

Giacobbe perde improvvisamente la moglie amata. Ella, prima di morire propone di chiamare il figlio Ben-Oni che, letteralmente, significa ‘figlio del mio dolore’, volendo così sottolineare la fecondità di quella morte e, quindi, riscattarla, in certa misura, dal non senso e dall’assurdità. Giacobbe, però, decide di chiamare quel figlio Beniamino che, letteralmente, significa ‘figlio della mano destra’, cioè ‘portatore di eventi favorevoli’.

Questo particolare rivela che Giacobbe, anche in mezzo al dolore, è un uomo capace di speranza. La tragedia familiare lo ha ferito profondamente; d’ora in avanti è come se cessasse la sua vita di uomo sposato: è significativo al riguardo che i versetti immediatamente seguenti riferiscano i nomi dei suoi figli reputando la sua discendenza come un fatto concluso. E, nonostante tutto questo, egli continua a credere ad un futuro di speranza.

Don Luigi Pedrini

29 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,

in seguito al fatto doloroso di cui si sono resi protagonisti i suoi figli, Giacobbe si vede costretto a lasciare Sichem.

Nel frattempo medita di fare un pellegrinaggio a Betel. Betel è il luogo in cui Dio gli era apparso nel sogno, durante la fuga dal fratello Esaù, all’inizio del lungo viaggio che lo avrebbe condotto dallo zio Làbano. Quella notte Giacobbe, per la prima volta, aveva vissuto un vero incontro personale con Dio e aveva anche promesso che, nel caso di un esito positivo del viaggio e della permanenza presso lo zio, avrebbe accolto Dio che gli aveva parlato come il “suo” Dio e quel luogo sarebbe diventato una “casa di preghiera”: Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo […] se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio” (Gen 28,20-22). Ora Giacobbe, vuole adempiere quel voto. Ma, mentre sta pensando di fare da solo questo pellegrinaggio, Dio interviene ed imprime una nuova svolta agli avvenimenti.

 

Dio disse a Giacobbe: “Alzati, và a Betel e abita là; costruisci in quel luogo un altare al Dio che ti è apparso quando fuggivi Esaù, tuo fratello”. Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti. Poi alziamoci e andiamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia e che è stato con me nel cammino che ho percorso”(Gen 35,1-3).

 

Si può notare la naturalezza con cui nel testo si riferisce l’iniziativa di Dio e la prontezza di Giacobbe nell’accogliere le sue parole. Giacobbe è, ormai, il credente che sta imparando a dialogare giorno per giorno con Dio e a camminare continuamente alla sua presenza. Forte di questa illuminazione dall’alto, egli convince i membri della sua famiglia a rimettersi in cammino, non senza prima chiedere anche a loro un passo ulteriore di avvicinamento a Dio e un gesto di purificazione, dopo il male che ha segnato la famiglia: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi…”.

Si verifica, però, a questo punto, un altro fatto sconcertante che apre profondi interrogativi nel cuore del patriarca. Il testo riferisce che “essi consegnarono a Giacobbe tutti gli dei stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi” e che “Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem” (Gen 35,4). Ora, tra questi “dei stranieri”, Giacobbe scopre anche le statuette che, a suo tempo, la moglie Rachele aveva sottratto al padre Làbano. Questo furto era stato una ragione dell’attrito tra zio e nipote. Infatti, quando lo zio lo raggiunge nel viaggio che determinerà la loro separazione definitiva rivendica, tra l’altro, la restituzione delle statuette. In quell’occasione Giacobbe, che era all’oscuro del fatto, aveva preso le difese di tutti i familiari e aveva rassicurato lo zio dicendo che se un giorno avesse scoperto l’autore del furto, questi non sarebbe rimasto in vita.

Ora Giacobbe scopre che il furto è stato opera di Rachele, la moglie amata. È una scoperta dolorosa che crea in lui un grande turbamento. Nel suo cuore c’è un affastellarsi di pensieri contradditori che lo riempiono di costernazione. La morte repentina di Debora, nutrice di Rebecca, che avviene proprio a Betel (Gen 35,8), viene a gettare ancor più un’ombra cupa sulla vicenda.

 Don Luigi Pedrini

22 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,
accennavo la settimana scorsa ai guai a cui Giacobbe è andato incontro subito dopo il suo insediamento nella terra di Canaan. Ed, ecco, come sono andate le cose.
Giacobbe ha una figlia, Dina. Un giorno decide di scendere in città per vedere come usano vestirsi le ragazze del luogo. Accade, però, che la sua presenza non passa inosservata e un giovane, di nome Sichem, abusa di lei. Il testo mette in luce che Sichem, pur avendo sbagliato, è tuttavia sinceramente innamorato della ragazza e vorrebbe sposarla. Intanto, Giacobbe viene informato: “Intanto Giacobbe aveva saputo che quegli aveva disonorato Dina, sua figlia, ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame. Giacobbe tacque fino al loro arrivo” (Gen, 34,5)
“Aveva saputo”, “tacque”. Giacobbe, come già accennavo, è ormai un uomo che sa ascoltare in silenzio. Non è più l’uomo scaltro che aveva una soluzione brillante in qualunque situazione. Ora, è un uomo che, quantunque profondamente ferito dal male, ascolta rimanendo in silenzio.
Il dramma è costituito dal seguito della vicenda. Al ritorno dal lavoro, anche i figli sono informati del fatto. Si decide di avviare le trattative per stipulare il matrimonio, senonché, due figli – Levi e Simeone – decidono di vendicare l’offesa subita e escogitano un piano subdolo per uccidere Sichem e i membri della sua famiglia. Ecco l’esito drammatico della vicenda.

Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem, portarono via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono. […] Saccheggiarono la città, perché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero così i loro greggi e i loro armenti, i loro asini e quanto era nella città e nella campagna (Gen 34,26-29).

Questa è la tragedia immane che accade nella famiglia di Giacobbe. È del tutto comprensibile il lamento che egli rivolge ai figli.

Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: “Voi mi avete messo in difficoltà, rendendomi odioso agli abitanti del paese, ai Cananei e ai Perizziti, mentre io ho pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa”. Risposero: “Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta?” (Gen 34,30-31).

Dunque, i figli non ritrattano il loro operato e la cosa strana è che Giacobbe a questo punto non è più capace di replicare nulla. Commenta significativamente, al riguardo, P. Stancati:

È come se, dal giorno in cui è entrato nel suo cammino di conversione, (a Giacobbe) mancassero le parole e gli argomenti convincenti. Non sa più come persuadere coloro che dovrebbero essere più attenti ad imparare da lui il mestiere del vivere umano. È un uomo divenuto stranamente pensoso: è un vero peccatore ed è un vero convertito, per cui è un uomo che ormai sa assumere su di sé il fallimento di tutti coloro che incontra […] Lo stesso peccato altrui, certamente non approvato, è un peccato che sopporta, di cui porta il peso in sé, di cui condivide le conseguenze. È un peccatore che si guarda intorno e riconosce subito i peccatori, verso i quali non ha più nessuna complicità e convivenza, ma verso i quali sa offrire uno sguardo pietoso (p. 108).

Don Luigi Pedrini

15 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo),  15 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,
dopo i giorni della Pasqua, torniamo a rimetterci in ascolto della vicenda del patriarca Giacobbe. L’abbiamo lasciato nei pressi di Succot mentre si prepara ad entrare e a stabilirsi definitivamente nella sua terra natale, la terra di Canaan.

Per Giacobbe inizia una tappa nuova della sua vita. Egli stesso è un uomo cambiato. Dopo la notte della lotta con Dio che ha segnato la sua conversione, ora guarda in modo nuovo persone e cose. Avendo fatto l’esperienza della fedeltà di Dio nei suoi confronti, è capace di guardare ogni persona con uno sguardo di misericordia e di comprensione. Non è la compassione che nasce da un atteggiamento di superiorità che Io porta a guardare tutto a distanza senza lasciarsi coinvolgere; è, invece, la compassione che nasce dalla consapevolezza di essere peccatore e, nello stesso tempo, oggetto di una insperata misericordia.

Da questo momento vediamo in Giacobbe i tratti di un uomo pacificato. Infatti, il testo precisa che Giacobbe, dopo la separazione da Esaù, arrivò sano e salvo alla città di Sichem, che è nel paese di Canaan, quando tornò da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città (Gen. 33,18). “Sano e salvo” in ebraico è detto shalem che ha la stessa radice del sostantivo shalom che significa pace.

Anche gli abitanti di Sichem hanno una buona impressione di Giacobbe e della sua famiglia e, per questo, mostrano verso di lui un atteggiamento di cordiale accoglienza. Questi uomini sono gente pacifica: abitino pure con noi nel paese e lo percorrano in lungo e in largo… Così, dichiara una delle persone più autorevoli del luogo.

Le difficoltà, però, non tardano a manifestarsi. Le persone che gli stanno attorno, sia all’esterno, sia all’interno della cerchia familiare, combinano guai di ogni sorta.
Eppure, Giacobbe, di fronte a questi fatti dolorosi, rimane spettatore pensoso e parco di parole. Egli conserva viva memoria di quante peripezie è stato protagonista in passato; sa bene di aver procurato guai e sofferenze a persone care. Ora, davanti al male, si sente coinvolto in prima persona e, persine, in certa misura, corresponsabile. Se ne fa carico e, con pazienza, sopporta in silenzio e nella solitudine. È giusto sottolineare questa nota di solitudine, perché Giacobbe, da quando si è convcrtito, conosce anche la dimensione della solitudine.

Egli, pur avendo tanta gente attorno a sé – il Signore gli ha concesso una famiglia numerosa e anche la possibilità di mantenere al suo servizio servi e serve – è, tuttavia, un uomo solo. La conoscenza di Dio, che ha acquisito dopo l’esperienza drammatica della lotta, lo porta a guardare gli avvenimenti in un orizzonte sconosciuto ai più. Non trova nessuno attorno a lui col quale poter dialogare sulla stessa lunghezza d’onda, nessuno a cui poter raccontare le sue cose. In questa solitudine si trova a far fronte a guai di ogni genere.
Ma di questo parlerò la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

1 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo),  1 Aprile 2012

Portarono il puledro da Gesù. Vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra.
Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi.
Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano: “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore ”
(Mc 11,7-10).

Carissimi Parrocchiani,
oggi noi guardiamo Gesù che entra a Gerusalemme: ormai è giunta la Sua ora, l’ora tanto attesa.
Egli si presenta mite, buono, pacifico, apparentemente debole. Così, Gesù ci insegna che la grande forza del mondo è la bontà: il vero forte è l’uomo buono; il vero forte è colui che ha vinto la violenza dentro di sé; vincitore non è colui che calpesta la vita degli altri, ma colui che da la vita agli altri.
Iniziando la Settimana santa, la settimana più bella e importante dell’anno liturgico, siamo chiamati a uniformare il nostro passo a quello del Signore, così che la sua strada sia anche la nostra strada. Con questa speranza auguro a tutti voi di vivere bene questi giorni, facendo tesoro delle intense celebrazioni liturgiche del triduo pasquale, custodendo nel cuore, con tutta la cura possibile, la pace: solo un cuore in pace può cantare con gioia l'”Alleluia” pasquale.
Buona Settimana Santa!

Don Luigi Pedrini

25 Marzo 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 25 Marzo 2012

Carissimi Parrocchiani,

concludevo l’altra volta dicendo che Esaù, dopo l’incontro con il fratello, riparte e si dirige verso Seir; Giacobbe, invece, prende un’altra direzione e va a Succot.

[17] Giacobbe invece si trasportò a Succot, dove costruì una casa per sé
e fece capanne per il gregge. Per questo chiamò quel luogo Succot.

Dunque, Giacobbe entra in Succot. Succot in ebraico significa “capanne”. Gli ebrei hanno una grande festa che si chiama festa delle Capanne. Anche, nella vita di Gesù si parla di una sua partecipazione a questa festa. Così, ad esempio, nel Vangelo di Giovanni si legge: “Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne… Vi andò anche lui…” (Gv 7,2.10).
La festa si celebrava in autunno e ricordava il soggiorno degli ebrei sotto le tende durante il cammino nel deserto, all’uscita dall’Egitto, prima di entrare nella terra promessa. Ricordava anche le successive occasioni in cui Israele è ritornato ad abitare sotto le tende, come ad esempio, durante l’esilio, quando gli israeliti dovettero lasciare la propria terra e vivere molti anni in terra straniera.
Per la festa gli ebrei erano soliti costruire piccole capanne e per una settimana dormivano all’aperto sotto le frasche. Era il modo di ringraziare il Signore che aveva concesso loro una dimora stabile e, nello stesso tempo, per ricordare il carattere pellegrinante della vita umana: per quanto l’uomo cerchi di garantirsi la stabilità, rimane pur sempre su questa terra un pellegrino. Dirà più tardi l’autore della Lettera agli Ebrei che noi rimaniamo pur sempre “stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13) e che “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura” (Eb 13,14).
Giacobbe nel suo viaggio di ritorno non è ancora entrato nella terra promessa. Sta sulla soglia e, per l’ultima volta, trascorre la notte sotto una tenda. Poi, una volta entrato, abbandonerà definitivamente la vita nomade.
In tutto questo noi possiamo leggere la parabola della vita umana: anche noi, come Giacobbe, siamo per tutta la vita pellegrini verso la terra promessa, in attesa di poterci stabilire definitivamente nella Succot eterna che il Signore ha già preparato per noi. Ce lo ricorda esplicitamente Gesù nel Vangelo:

[1] “Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
[2] Nella casa del Padre mio vi sono molti posti […] Io vado a prepararvi un posto;
[3] quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me,
perché siate anche voi dove sono io… “.

Don Luigi Pedrini

18 Marzo 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Marzo 2012

Carissimi Parrocchiani,
ci siamo soffermati la volta scorsa sull’incontro tra Giacobbe ed Esaù. Come si sono evolute, poi, le cose? Dopo l’incontro, Esaù vuole ripartire. Egli, continuando a condurre una vita nomade, non è vincolato ad alcun luogo, può spostarsi con scioltezza e senza alcun timore, perché con i suoi uomini armati può far fronte ad ogni pericolo.

[12] Poi Esaù disse: “Leviamo l’accampamento e mettiamoci in viaggio: io camminerò davanti a te”.
[13] Gli rispose: “Il mio signore sa che i fanciulli sono delicati e che ho a mio carico i greggi e gli armenti che allattano: se si affaticano anche un giorno solo, tutte le bestie moriranno.
[14] Il mio signore passi prima del suo servo, mentre io mi sposterò a tutto mio agio, al passo di questo bestiame che mi precede e al passo dei fanciulli, finché arriverò presso il mio signore a Seir”.
[15] Disse allora Esaù: “Almeno possa lasciare con te una parte della gente che ho con me!”. Rispose: “Ma perché? Possa io solo trovare grazia agli occhi del mio signore!”.
[16] Così in quel giorno stesso Esaù ritornò sul suo cammino verso Seir.

Giacobbe declina l’invito di Esaù a riprendere con lui il cammino, presentando buone ragioni: ci sono i bambini piccoli, ci sono le greggi con le pecore madri. Pensare di stare al passo del fratello è, dunque, impensabile. Tuttavia, dietro a queste ragioni del tutto plausibili, possiamo intravedere anche un’altra motivazione: Giacobbe non si sente di consolidare in modo più profondo il rapporto con il fratello.
Può sembrare una stranezza e, a prima vista, si potrebbe giudicare come un’ambiguità, uno strascico di quella astuzia che tante volte, in precedenza, abbiamo riscontrato nel patriarca. Così, anche in questa occasione, egli all’esterno si mostra tutto ossequioso verso il fratello, poi, però, al suo invito risponde, in sostanza, che è meglio che ciascuno vada per la propria strada.
In realtà, in tutto questo dobbiamo, invece, riconoscere la sapienza di vita che ormai Giacobbe ha acquistato. Egli è ormai un uomo che vuol vedere chiaro e fare verità nella sua vita. Ha incontrato il fratello e questo è una cosa positiva, ma è anche abbastanza realista da rendersi conto che il loro cammino non può procedere insieme. Esaù ha la sua storia, la sua famiglia, il suo stile di vita. E così anche Giacobbe.
Giacobbe è un uomo che ha ormai il polso della realtà; sa bene che il vincolo fraterno ricomposto non è tale da permettere, almeno sull’immediato, una convivenza. E, allora, ecco che Esaù, conformemente al suo stile di vita nomade, riparte. In un giorno è venuto e nello stesso giorno se ne è andato, consumando in fretta un avvenimento atteso forse da anni. Giacobbe, invece, vuole prendere tempo: col passare degli anni è diventato sempre più riflessivo e ha bisogno di tempi lunghi, di tempi di silenzio e di solitudine. “Il nostro ladro e truffatore – commenta P. Stancari – è adesso diventato un uomo onesto. Deve acquisire dal di dentro la densità delle cose vissute, e finché non le ha assunte, assimilate interiormente, si rende conto che sarebbe spropositato compiere salti in avanti” (P. Stancari S.J., I Patriarchi, CENS, Milano 1994, p. 102).
Così, Esaù riparte e si dirige verso Seir; Giacobbe, invece, prende un’altra direzione.

Don Luigi Pedrini

 

11 Marzo 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 11 Marzo 2012

[5] Poi alzò gli occhi e vide le donne e i fanciulli e disse: “Chi sono questi con te?”. Rispose: “Sono i figli di cui Dio ha favorito il tuo servo”. [6] Allora si fecero avanti le schiave con i loro figli e si prostrarono.
[7] Poi si fecero avanti anche Lia e i suoi figli e si prostrarono e infine si fecero avanti Rachele e Giuseppe e si prostrarono.
[8] Domandò ancora: “Che è tutta questa carovana che ho incontrata?”. Rispose: “È per trovar grazia agli occhi del mio signore”. [9] Esaù disse: “Ne ho abbastanza del mio, fratello, resti per te quello che è tuo!”.
[10] Ma Giacobbe disse: “No, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché appunto per questo io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio, e tu mi hai gradito. [11] Accetta il mio dono augurale che ti è stato presentato, perché Dio mi ha favorito e sono provvisto di tutto!”. Così egli insistette e quegli accettò.Carissimi Parrocchiani,
abbiamo lasciato Giacobbe che si incontra con il fratello Esaù. Il tempo ha medicato le ferite e il fratello gli corre incontro e lo abbraccia. Ora, Giacobbe rispondendo al fratello presenta i suoi figli: sono il dono con cui Dio lo ha beneficato. Quindi, fa venire davanti a lui le schiave e i loro figli; poi, Lia i suoi figli; da ultimo, Rachele e il figlio Giuseppe. Tutti gli si prostrano davanti.
Giacobbe aveva preparato l’incontro con l’invio di abbondanti donativi, con meraviglia di Esaù che non vorrebbe accettarli. Egli, invece, insiste perché il fratello, quantunque non manchi di nulla, li accolga come dono augurale, dal momento che Dio è stato buono con lui.
È degno di nota il fatto che Giacobbe in poche battute per ben tre volte nomini Dio. Questo non poter riferire la propria storia senza nominare Dio testimonia il profondo cambiamento interiore avvenuto in lui. Per anni ha vissuto facendo a meno di Dio, quasi fosse estraneo alla sua storia. Ora, invece, riconosce che tutto il suo cammino è stato guidato dalla sua presenza fedele e provvidente.
Degna di nota è pure la dichiarazione “per questo io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio”. La traduzione fedele al testo originale suona così: “Io sono venuto davanti al tuo volto”. Questa traduzione richiama ancora il tema del volto che era centrale nell’episodio misterioso della lotta. Quella vicenda, infatti, si concludeva rimarcando il fatto che Giacobbe aveva potuto vedere Dio “faccia a faccia” e, tuttavia, avere salva la vita. Ora, Giacobbe, può presentarsi davanti al volto del fratello e, come in precedenza con Dio, trovare benevolenza.
Questo diretto accostamento tra il vedere il volto di Dio e il vedere il volto del fratello vuole dire una cosa importante. Giacobbe, proprio perché in precedenza ha visto il volto di Dio, è in grado ora di comparire di fronte al volto del fratello. Annota bene, al riguardo, un commento di Padre Stancari:
È possibile a Giacobbe ritornare a casa, alla terra di suo padre, ritornare alla tradizione dei suoi progenitori, rientrare nel discorso aperto da Dio con le promesse ad Abramo, perché ritrova la faccia del fratello ed ha il coraggio di ripresentare la sua faccia al fratello. Incontro possibile solo in quanto Giacobbe ha incontrato il volto di Dio. Se ciò non fosse avvenuto, i due fratelli non si sarebbero mai più potuti riconoscere e non avrebbero potuto più guardarsi negli occhi (P. Stancari, I Patriarchi, CENS, Milano 1994, pp. 100-101).

Don Luigi Pedrini

04 Marzo 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 04 Marzo 2012

Carissimi Parrocchiani,
concludevo la settimana scorsa dicendo che Giacobbe, dopo la lotta sostenuta con Dio, era ormai pronto per andare incontro al fratello Esaù. E così avviene.

[1] Poi Giacobbe alzò gli occhi e vide arrivare Esaù che aveva con sé quattrocento uomini. Allora distribuì i figli tra Lia, Rachele e le due schiave;
[2] mise in testa le schiave con i loro figli, più indietro Lia con i suoi figli e più indietro Rachele e Giuseppe.
[3] Egli passò davanti a loro e si prostrò sette volte fino a terra, mentre andava avvicinandosi al fratello.
[4] Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero.

Le parole del v. 4 (… gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò…) riecheggiano chiaramente le parole con cui l’evangelista Luca, nella parabola del figliol Prodigo, descrive gli atteggiamenti del padre verso il figlio minore che ritorna a casa.
Si apre, così, un parallelo tra la vicenda di Giacobbe e Esaù e la vicenda dei due fratelli della parabola. In effetti, ci sono tratti di comunanza. Il fratello minore si allontana dalla casa paterna e poi vi ritorna, così come Giacobbe; il fratello maggiore rimane in casa, ma vi rimane sostanzialmente come un estraneo, senza mai condividere veramente l’eredità paterna così come Esaù. Egli, infatti, non è mai uscito dalla sua terra natale, non se ne è mai andato, ma vi è rimasto come un estraneo: è sempre in giro per le sue cacciagioni; ha sposato donne straniere; si è stabilito nel deserto del Sair.
Esaù corre incontro al fratello che ritorna e tra i due avviene la riconciliazione: la fraternità che era andata in crisi, ora risorge.
La storia di Giacobbe, da questo momento si configura come la storia di un uomo che vuole ritornare sui suoi passi e vuole rimediare a tutto ciò che nella sua vita c’è stato di disgregante. Giacobbe ha maturato un umile coscienza di sé; le vicissitudini incontrate lo hanno reso consapevole della propria miseria; sa di non di non essere meritevole di nulla e di poter appellarsi soltanto alla benevolenza e disponibilità di chi lo incontra.
Questa disponibilità egli la incontra nel fratello Esaù, che al di là di tutte le sue stravaganze, è in fondo un uomo buono. Il suo più grosso limite è quello di non aver mai vissuto un serio cammino di conversione, di non aver mai conosciuto scelte radicali che l’hanno allontanato dalla strada maestra e che, quasi a forza, l’hanno portato a rientrare in se stesso e a ravvedersi.
Il fatto che la Parola di Dio presenti la vicenda di questi due fratelli così diversi ha un suo significato: vuole dire che il disegno di Dio sulla storia va a buon fine là dove un uomo fa l’esperienza del perdersi per trovarsi, del morire per vivere. Giacobbe è stato profondamente segnato, in quella notte di lotta, dall’incontro con Dio: si è scoperto debole, incapace di sostenere la lotta e si è affidato totalmente a Dio. Non importa se ne è uscito zoppicante; in cambio ha ricevuto un nome nuovo e la benedizione di Dio. Dio si è fatto presente nella sua storia e l’ha attraversata senza consumarla, un po’ come accadrà al roveto che bruciava sul Sinai senza consumarsi: il fuoco di Dio ha avvolto Giacobbe, l’ha penetrato, non distruggendolo, ma  rigenerandolo.

Don Luigi Pedrini