09 Ottobre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 09 Ottobre 2011

Carissimi Parrocchiani,

riprendiamo la vicenda di Giacobbe, ponendo attenzione a uno degli episodi che maggiormente hanno segnato il suo cammino e che è rivelativo della sua personalità umanamente astuta, ma di un’astuzia che il Signore, col tempo, purificherà nell’umiltà.

Una volta Giacobbe aveva cotto una minestra di lenticchie;
Esaù arrivò dalla  campagna ed era sfinito.
Disse a Giacobbe: <<Lasciami mangiare un pò di questa  minestra rossa, perché io sono sfinito>>
Per questo fu chiamato Edom.  Giacobbe disse: <<Vendimi subito la tua primogenitura>>.
Rispose Esaù: <<Ecco  sto morendo: a che mi serve allora la primogenitura?>>.
Giacobbe allora disse:  <<Giuramelo subito>>.
Quegli lo giurò e vendette la primogenitura a Giacobbe (Gen 25,29-33).

Tutto avviene in modo repentino: Esaù è oppresso da una grande stanchezza e Giacobbe, approfittando del momento propizio, quasi per gioco, si fa cedere la primogenitura.
Sembra uno scherzo: l’impressione è che Esaù, in questo momento, non si renda conto veramente di ciò che sta avvenendo e, in ogni caso, non percepisca la portata della richiesta del fratello. In questa maniera egli dimostra una certa superficialità di carattere che non gli permette di apprezzare come meriterebbero i doni che possiede e, nel caso specifico, la primogenitura.
Il testo non si esime dal giudicare negativamente il comportamento di Esaù:

Giacobbe diede ad Esaù il pane e la minestra di lenticchie; quegli mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. A tal punto aveva disprezzato la primogenitura (Gen 25,34).

Il giudizio è senza mezzi termini: Esaù ha sbagliato in quanto ha disprezzato il dono della primogenitura dimostrandosi un uomo inaffidabile: non ha saputo custodire se stesso. La sua scelta non merita alcuna scusante. L’aver sacrificato la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie è, veramente, una cosa meschina.
Questo particolare della vicenda mi ha portato a ricordare il rimprovero mosso da san Tommaso Moro a Richard, un uomo impegnato in politica che, pur di far carriera, ha sacrificato la sua dignità e onestà: “È valsa la pena per avere in cambio in cambio la contea del Galles?”, gli ha domandato san Tommaso Moro.  Come a dire: come si può mettere sullo stesso piano la propria dignità, la propria onestà di uomo e la contea del Galles? Dignità e onestà non hanno prezzo e non possono essere patteggiate.
Sta di fatto che Giacobbe si servirà della cessione della primogenitura da parte di Esaù per legittimare in certo modo la richiesta della benedizione paterna per sé riservata al primogenito.
In tempo opportuno riuscirà, ancora una volta con uno stratagemma, a ottenerla dal padre. Commenteremo questo episodio riferito nel cap. 27 la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

OMELIA SAGRA MADONNA DEL ROSARIO

OMELIA SAGRA MADONNA DEL ROSARIO

 2 ottobre 2011

Oggi, prima domenica di ottobre, 27° domenica del tempo fra l’anno, per noi è solennità: ricorre la Sagra della Madonna del Rosario. La Sagra nella vita di una parrocchia è un momento importante: ci aiuta a far memoria del nostro essere comunità di fede, famiglia nel Signore e, quindi, a ritrovare la nostra identità di parrocchia. In secondo luogo, la nostra Sagra, essendo dedicata a Maria come Vergine del Rosario, accresce la nostra devozione verso di Lei e ci stimola a invocarla con il Rosario.

Anche la prima lettura che abbiamo ascoltato era un invito forte a ripensare al nostro essere comunità di fede che appartiene al Signore. Dio si rivolge a Israele, sua comunità di fede chiamandola sua “vigna”, per dire che è il pezzo di terra che Egli ha riservato a sé e che con ogni cura ha lavorato (mi spiegavano tempo fa che tenere una vigna in ordine richiede un lavoro continuato. Io stesso ho visto la fatica che comporta il sottrarre qualche metro quadrato di terra alla montagna per trasformarla in vigna). Dio, infatti, intonando il suo cantico per la vigna ricorda la premura, la presa a cuore con cui si è dedicato alla sua vigna: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?”. Ma, poi, il cantico si trasforma in lamento: “Perché mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?”.

Nel Vangelo Gesù riprende sostanzialmente questo messaggio, aggiungendo, però, un complemento molto importante. Nella prima lettura Dio poneva la domanda. “Potevo fare di più di quello che ho fatto?”, qui nel Vangelo Gesù viene a dirci che Dio ha ritenuto di fare nei nostri confronti un gesto ulteriore di benevolenza. Dopo i profeti da Lui mandati e che noi abbiamo rifiutato, Dio ha voluto tenderci ancora la mano mandando il suo Figlio. Purtroppo, però, neppure questo è valso a smuovere il nostro cuore.

Davanti a queste letture mi veniva spontaneo aprire una domanda sulla nostra comunità. Mi domandavo: e se il Signore ora intonasse il cantico per noi sua vigna come sarebbe? Anche a noi potrebbe ricordare la cura che ci ha usato. Lo testimonia la radicata tradizione di fede che si avverte nella maggior parte delle famiglie. Ma dobbiamo anche chiederci: questa eredità che abbiamo ricevuto come la stiamo valorizzando? Crediamo ancora che questo patrimonio di valori che ha sostenuto prima di noi tante generazioni merita di essere salvaguardato? Sentiamo la responsabilità dover trasmettere questa eredità ai ragazzi, ai giovani, di educarli alla fede così come ci siamo impegnati a fare nel giorno in cui li abbiamo portati in chiesa davanti al Signore chiedendo per loro il battesimo?

Purtroppo, oggi il vento della secolarizzazione che progetta un vivere come se Dio non ci fosse, illudendoci di poter bastare a noi stessi, soffia ovunque e si fa sentire anche nella nostra piccola comunità. Eppure di Dio abbiamo bisogno. Magari, in un primo momento ci sembra di poter vivere anche senza, che le cose funzionino abbastanza bene anche senza di Lui. Ma, poi, ci si accorge che qualcosa manca, che questo mondo da solo è troppo piccolo per la sete di infinito che portiamo in noi.

Nei giorni scorsi il Papa nella sua visita in Germania parlando di Lutero e della sua riforma, ha ricordato che al centro della sua ricerca interiore c’era la questione di Dio: “Come posso credere in Dio e in un Dio misericordioso?”. E confessava la sua meraviglia per questa domanda di Lutero su Dio, perché oggi , anche tra i cristiani, sono pochi quelli che si interrogano seriamente su Dio e si chiedono veramente: “Ma Dio che cosa ha a che fare con la mia vita? E io come mi pongo davanti a Lui?”. Questa domanda che non vuole avere niente di intellettuale, ma vuole essere molto concreta, dovrebbe essere la domanda di ogni cristiano.

Dio che cosa c’entra con la mia vita? Per me ragazzo; per me giovane che mi preparo ad entrare nel cuore della vita; per me che ho una famiglia; per me che svolgo questo lavoro; per me che sono avanti negli anni; per me che sono segnato dalla precarietà della salute; per me che sto attraversando questo momento di prova?

Mettere il Signore al centro della nostra vita oggi richiede il coraggio di andare controcorrente: per questo è necessaria la preghiera. Solo la preghiera permette di sentire che il Signore non ci lascia soli in questo mondo, che possiamo – come diceva san Paolo nella seconda lettura – non angustiarci per nulla e in ogni circostanza fare presente a Dio le nostre richieste.

Nel tenere viva la preghiera valorizziamo – come ci ricorda la nostra Sagra – la bella preghiera del Rosario. “Dal Rosario – ho scritto nel Foglio settimanale – i cristiani di ieri (come quelli di oggi) hanno tratto (e possono trarre) forza per una vita sobria, nella fedeltà che esprime un profondo amore reciproco e una tale dimenticanza di sé in grado di farsi dono a tutti con pazienza nelle avversità”.

Affidiamo tutto questo al Signore per le mani di Maria, come ci esorta san Luigi Grignon de Montfort. Ci aiuti il Signore a calare la fede nella vita concreta di ogni giorno e a testimoniare il coraggio e la speranza che vengono dal Vangelo.

Vivendo così saremo davvero la vigna del Signore.

Diocesi di Pavia