26 Febbraio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 26 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

sostiamo ancora sull’episodio misterioso della lotta di Giacobbe con Dio, per raccogliere un secondo insegnamento che riguarda la preghiera.

Infatti, in quella notte di combattimento di Giacobbe la tradizione biblica e cristiana ha visto rappresentata l’esperienza della preghiera. In effetti, la preghiera è uno “stare alla presenza” di Dio ed è uno “stare” che può costare a tratti anche molta fatica.

S. Teresa d’Avila grande maestra di spiritualità non nasconde le difficoltà della preghiera. Tuttavia, dal momento che essa dona l’amicizia con Dio – la definisce, infatti, come “un intimo rapporto d’amicizia con Dio” –, incoraggia a perseverare nella preghiera. Il dono che si riceve ripaga in sovrabbondanza la fatica che comporta. Scrive: “Considerando quanto vi sia vantaggioso averlo (il Signore) per amico e quanto Egli vi ami, sopportate pure la pena di stare a lungo con Uno che sentite così diverso da voi”.

Il Card. Martini fa un’osservazione interessante riguardo alla preghiera fatta sulla Parola di Dio. La raccogliamo perché tocca quanti nella nostra comunità parrocchiale in diversi modi – penso in particolare ai gruppi di ascolto del vangelo – stanno muovendo i primi passi per imparare a meditare e a pregare con il testo biblico. Scrive.

 Il cammino della lectio divina quotidiana) è indubbiamente difficile. Magari all’inizio ci entusiasmiamo ascoltando la lectio che ci viene insegnata da altri, e viviamo queste lezioni con interesse e curiosità; però, quando incominciamo a farla da soli l’esercizio può diventare pesante, oscuro, arido; può perdere il gusto della novità… In realtà, anche nei momenti in cui la lectio divina è faticosa, comporta una lotta per stare davanti al mistero di Dio […] la parola della Scrittura, la Parola di Dio, ci trasforma, ci purifica, ci mette in un contatto più profondo, pur se non avvertito, con il mistero del Padre e con il mistero della Trinità (C.M. Martini, La trasfigurazione, in AA.VV., Icone di vita consacrata, EP 197, 21)

Dunque, vale la pena, nonostante tutto, sostenere questa lotta. Del resto, anche Gesù nel Vangelo esorta a perseverare: egli ha apprezzato la preghiera fatta con fiducia e insistenza (pensiamo alla supplica della donna siro-fenicia); l’ha raccomandata (pensiamo alla parabola della vedova importuna, che si conclude con l’esortazione: “chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete”). Egli stesso, poi, nell’orto degli ulivi, ci ha dato l’esempio di una preghiera capace di lottare anche nel momento supremo della prova.

La testimonianza di tanti cristiani attesta che da questa lotta si esce nuovi, con la capacità di affrontare nuovamente il cammino, per quanto arduo, che sta davanti. Dopo quella notte Giacobbe è pronto per andare incontro al fratello Esaù; così, Gesù, dopo la preghiera nel Getsemani, si rialza e dice ai discepoli: “Alzatevi, andiamo”, dando così inizio all’ascesa verso il Calvario.

Don Luigi Pedrini

 

19 Febbraio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 19 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

dal momento che in questa settimana si apre davanti a noi il tempo della Quaresima mi pare giusto dire al riguardo una parola.

Il tempo della Quaresima è il tempo liturgico che maggiormente richiama ad ognuno di noi l’impegno della conversione. Il cammino cristiano iniziato il giorno del nostro battesimo vuole condurci ad una conformazione sempre maggiore a Cristo che è la verità della nostra vita. Ma proprio confrontandoci con Lui e cercando di imitare il suo esempio scopriamo continuamente la distanza dai suoi sentimenti, dai suoi pensieri, dai suoi comportamenti. Ci rendiamo conto che nella nostra vita rimangono ancora ombre da illuminare, sporgenze da limare: è la lotta inesausta che dobbiamo condurre contro il nostro uomo vecchio succube del peccato, perché abbia ad emergere sempre più in noi l’uomo nuovo generato dalla grazia battesimale.

Benedetto XVI nel suo messaggio per la Quaresima, dopo aver ricordato che la Quaresima”è un tempo propizio affinché rinnoviamo il nostro cammino di fede”, invita a orientare l’impegno di conversione su alcuni aspetti della vita cristiana.
Tra questi insiste in modo particolare sul “fare attenzione” ai fratelli e, quindi, a non mostrarsi estranei e indifferenti verso di loro. “Il grande comandamento dell’amore del prossimo – scrive – esige e sollecita la consapevolezza di avere una responsabilità verso chi, come me, è creatura e figlio di Dio”.
Oggi questa capacità di “fare attenzione” è quanto mai importante e urgente, perché spesso ci si scontra con atteggiamenti di indifferenza e di disinteresse verso gli altri. Affermava al riguardo Paolo VI: “Il mondo è malato. Il suo male risiede meno nella dilapidazione delle risorse o nel loro accaparramento da parte di alcuni, che nella mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” (Populorum Progressio, n. 66).

Quale la causa di tutto questo? – si domanda Benedetto XVI. Ed ecco la risposta: “Sono spesso la ricchezza e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni”. Non bisognerebbe mai arrivare al punto di essere incapaci di ‘avere misericordia’ verso chi soffre; purtroppo, però, il nostro cuore può “essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero”.

Il Papa incoraggia a risvegliare in noi l’atteggiamento del “fare attenzione” ricordando la beatitudine che Gesù ha promesso a “coloro che sono nel pianto”, cioè a coloro che sono in grado di uscire da se stessi per commuoversi del dolore altrui. E conclude: “L’incontro con l’altro e l’aprire il cuore al suo bisogno sono occasione di salvezza e di beatitudine”.

Don Luigi Pedrini

12 Febbraio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 12 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prima di congedarci dall’episodio misterioso della lotta di Giacobbe con Dio, voglio raccogliere due insegnamenti
Il primo lo traggo da questo particolare strano dell’episodio: Giacobbe risulta perdente nella lotta tanto che ne esce sciancato, eppure alla fine viene riconosciuto vincitore. Si può dire che egli abbia vinto capitolando, arrendendosi al suo “assalitore”.
In questo capitolare davanti a Dio Giacobbe ha realizzato il vero attraversamento dello Iabbok: non consiste nel passaggio di un torrente reso difficile dalle tenebre della notte, ma nel passaggio dalla sponda dell’attaccamento alle proprie sicurezze e ai propri beni affettivi alla sponda dell’affidamento a Dio.
Il passaggio dello Iabbok è, allora, anche il nostro passaggio per diventare veramente discepoli. A questo riguardo, la vicenda di Giacobbe ci insegna una cosa davvero degna di nota: questo passaggio si fa capitolando, perché è così che si consegue, paradossalmente, la vittoria. Scrive in proposito il card. Martini:

“Solo abbandonandomi perdutamente a Lui, solo capitolando nelle sue mani potrò riprendere nelle mie il bandolo della matassa intricata della vita” e arrendendomi potrò scoprire in Lui “un Dio tenero come un Padre e una Madre, che non rinnega mai i suoi figli. Un Dio umile, che manifesta la sua onnipotenza e la sua libertà proprio nella sua debolezza (Cfr: C. M. Martini, Parlo al tuo cuore, Milano 1996, pp 18-19).

Questo arrendersi per lasciarsi vincere da Dio non è senza fatica. È una lotta più dura delle fatiche esterne che possiamo sopportare; tuttavia, questa lotta conduce a un frutto di libertà, di mitezza, di pace. Una conferma significativa in proposito ci è offerta da queste parole del patriarca ecumenico Atenagora:

Per lottare efficacemente contro il male bisogna volgere la guerra all’interno, vincere il male in noi stessi. Si tratta della guerra più aspra, quella contro se stessi. Io questa guerra l’ho fatta. Per anni e anni. È stata terribile. Ma ora sono disarmato. Non ho più paura di niente, perché “l’amore scaccia la paura”. Sono disarmato della volontà di spuntarla, di giustificarmi alle spese degli altri. Sì, non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”.

Il secondo insegnamento che si può ricavare da questo episodio riguarda la preghiera. Ma di questo parlerò la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

05 Febbraio 2012

Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>>. Giacobbe rispose: <<Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!>>. Gli domandò: <<Come ti chiami?>>. Rispose: <<Giacobbe>>. Riprese: <<Non ti  chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli  uomini e hai vinto!>>. Giacobbe allora gli chiese: <<Dimmi il tuo nome>>. Gli  rispose: <<Perché mi chiedi il nome?>>. E qui lo benedisse (Gen 32,27-30).

San Leonardo Confessore (Linarolo), 05 Febbraio 2012

Carissimi Parrocchiani,

sostiamo ancora sul dialogo che si intavola tra Dio e Giacobbe nella notte della lotta misteriosa. Al centro del dialogo sta, oltre al cambiamento del nome di Giacobbe, il tema della benedizione. Quanto al nome già abbiamo detto; ora ci soffermiamo sulla benedizione.
Giacobbe chiede allo sconosciuto di sapere il suo nome e che gli dia la sua benedizione. Questa richiesta di essere benedetto testimonia un uomo che si è arreso e che, d’ora in avanti, non vuole più riporre la fiducia nelle proprie sicurezze umane, ma abbandonarsi alla fedeltà e alla benevolenza di Dio.
La richiesta è accolta a metà: non gli è concesso di sapere il nome, ma gli è concessa la benedizione. Da adesso Giacobbe sa di poter contare sulla fedeltà di Dio: anche se dal combattimento esce claudicante, non importa. Sarà un uomo zoppicante, ma pur sempre benedetto da Dio.
Così, Giacobbe che ha sempre vissuto nei suoi calcoli umani, adesso, improvvisamente, si apre al mistero di Dio. Dio, già nella notte del sogno, aveva fatto irruzione nella sua vita; ma, poi, era rimasto come nell’ombra agli occhi di Giacobbe, quantunque l’abbia accompagnato in tutto il suo cammino. Ora, Dio torna a manifestarsi e Giacobbe lo accoglie con una disponibilità totale..
Proprio in forza di questa accoglienza, Giacobbe diventa a pieno titolo il terzo anello di quella discendenza che, a partire da Abramo, si prolungherà nel tempo per arrivare fino a Gesù, cioè al dono del Figlio.

Allora Giacobbe  chiamò quel luogo Penuel <<Perché  disse  ho visto Dio faccia a faccia, eppure  la mia vita è rimasta salva>>. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e  zoppicava all’anca (Gen 32,31-32).

Secondo la tradizione biblica, Penuel significa “volto di Dio”. Giacobbe ha avuto il singolare privilegio di stare alla presenza di Dio e, tuttavia, ha avuto salva la vita.
Intanto, le ombre della notte si diradano, ormai è imminente il sorgere della luce che ridà  alle cose i giusti contorni e fa in modo che non incutano più paura. Giacobbe ora è pronto per incontrare il fratello. Grazie a quello che ha vissuto nella notte, grazie all’incontro con Dio, ormai la luce ce l’ha dentro. Ha contemplato il volto di Dio e, per questo, ora, il volto di Esaù non fa più paura.

Don Luigi Pedrini

29 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo ora il dialogo che si intavola tra Dio e Giacobbe

Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>>. Giacobbe rispose: <<Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!>>. Gli domandò: <<Come ti chiami?>>. Rispose: <<Giacobbe>>. Riprese: <<Non ti  chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli  uomini e hai vinto!>>. Giacobbe allora gli chiese: <<Dimmi il tuo nome>>. Gli  rispose: <<Perché mi chiedi il nome?>>. E qui lo benedisse (Gn 32,27-30).

Il dialogo si impernia su due elementi fondamentali: il nome e la benedizione. Anzitutto, il nome: il  personaggio misterioso chiede a Giacobbe il nome e saputolo lo cambia: d’ora in avanti non si chiamerà più Giacobbe, ma Israele.
Il cambiamento del nome attesta l’autorità di questo sconosciuto, ma insieme anche la volontà di stabilire una familiarità nuova, una nuova appartenenza. Giacobbe esce da questa vicenda cambiato, con una nuova identità: nasce come Israele.
E, così, scopriamo dove affonda la radice di Israele: proprio in questo conflitto tra Dio e Giacobbe, un conflitto che lo porta ad aggrapparsi disperatamente a Dio, il popolo di Israele ha sempre visto la propria origine e la propria identità.
È interessante anche la spiegazione del nome: “hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. In realtà è il contrario e il passo zoppicante con cui Giacobbe esce da questo combattimento lo testimonia. Eppure, Giacobbe ha vinto: la sua vittoria consiste proprio in questo aggrapparsi totalmente a Dio. Il suo arrendersi a Dio è in realtà la sua vittoria e Dio, d’altra parte, non voleva ottenere da lui nient’altro che questo: far sì che Giacobbe arrivasse ad affidarsi a lui, nonostante tutto.
In questo modo, Dio è riuscito in una notte, con la lotta, a ottenere questa consegna da un uomo che, fino ad allora, aveva vissuto facendo leva sulla propria intelligenza e sulla propria scaltrezza, cavandosela peraltro egregiamente nelle diverse situazioni della vita.

Il secondo elemento al centro del dialogo è la benedizione. Ma su questo ci soffermeremo la prossima volta.

 

Don Luigi Pedrini

22 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

seguiamo ora i passi della lotta tra Giacobbe e Dio attraverso la testimonianza del capitolo 32. Certo rimane un fatto misterioso e tutti i commenti a questo testo non si esimono dal farlo notare. Lutero, ad esempio, afferma che “questo passo è ritenuto fra i più oscuri di tutto l’Antico Testamento”. E aggiunge che “non  c’è da stupirsene: poiché si tratta di quella sublime tentazione non contro la carne e il sangue o contro il diavolo, ma contro Dio stesso”.

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui  fino allo spuntare dell’aurora (Gn 32,25)

Un uomo lotta con Giacobbe. Letteralmente, andrebbe tradotto: “qualcuno lottò con lui”. Il testo è molto generico; non svela direttamente l’identità di questo personaggio (solo nei versetti seguenti, cfr. v. 29; v. 31, si precisa che si tratta di Dio stesso). La notte, il fatto della lotta, la non identificazione dell’assalitore, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere ulteriormente misterioso l’episodio.

Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì  all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quegli disse: <<Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora>> (Gn 32,26-27).
Giacobbe, quantunque aggredito, non solo riesce a difendersi, ma anche – stando al testo – si difende bene. Infatti, il suo assalitore per avere la meglio su di lui ricorre a un colpo mancino: lo colpisce irrimediabilmente all’anca, così che d’ora in avanti sarà un uomo zoppicante.
Ciò nonostante, Giacobbe non solo continua a resistere al suo assalitore (“continuava a lottare”), ma anche lo trattiene. Stranamente, anziché svincolarsi, si aggrappa proprio a Lui.
E’ veramente una stranezza: proprio nel momento in cui Giacobbe ha l’impressione che tutto stia fallendo e gli stia sfuggendo dalle mani, sente di doversi aggrappare a quel Dio, con il quale, in fondo, ha combattuto giorno per giorno. La sua vita è stata una sfida con se stesso e con Dio. Ora, nel momento critico in cui si trova, nel quale potrebbe anche perdere tutto, è pronto per il passo decisivo: consegnarsi a lui, aggrapparsi a lui, fidarsi di lui.
Si aggrappa, dunque, letteralmente al suo avversario, fino a non lasciarlo, fino a non voler demordere per nessuna ragione, al punto che colui che lo ha assalito a un certo punto gli parla e gli dice: Lasciami andare, perché è  spuntata l’aurora (Gn 32,27).
Queste parole che infrangono il silenzio sono l’inizio di un dialogo tra i due protagonisti, un dialogo che noi vedremo la prossima volta. Prima, però, di concludere voglio sottolineare che nella caparbietà di Giacobbe possiamo vedere qualcosa di profetico. In fondo è l’anticipazione di quella caparbietà che Gesù raccomanda quando, nella preghiera, ci invita a “chiedere con insistenza, senza mai scoraggiarsi”.

 

Don Luigi Pedrini

15 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 15 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

continuiamo a metterci in ascolto della vicenda di Giacobbe. Egli si prepara ad entrare nella terra promessa, la terra di Abramo, del padre Isacco. Si tratta solo di attraversare un torrente; una volta al di là, dovrà aspettarsi da un momento all’altro l’arrivo, già preannunciato, di Esaù.
Giacobbe, stranamente, decide di attraversare il torrente nella notte. Manda avanti tutta la sua famiglia (le mogli, i figli, averi compresi), mentre egli li segue un po’ più arretrato. Ma a questo punto accade un fatto singolare: il testo narra che un personaggio misterioso – che poi si rivela essere Dio stesso – assale il patriarca e lotta con lui per tutta la notte.
Dunque, all’episodio notturno del sogno viene ad aggiungersi quest’altro episodio notturno: insieme costituiscono i due pilastri della vicenda spirituale di Giacobbe.
Ma seguiamo da vicino il racconto biblico.

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi  undici figli e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e  fece passare anche tutti i suoi averi Gn 32,23-24).

La vicenda si apre con un’annotazione geografica: lo Iabbok è un affluente che sfocia nel Giordano, una cinquantina di chilometri a nord del Mar Morto. Quantunque abbia un breve tragitto, tuttavia deve superare un dislivello di circa 1000 metri: nasce all’altezza di 738 metri e si immette nel Giordano quando è già a meno 350 metri sotto il livello del mare. Quindi, si comprende che le sue acque siano vorticose e pericolose da attraversare.
Il testo, in precedenza, fa menzione di un bastone che ha facilitato a Giacobbe l’attraversamento del Giordano (Gn 32,11); qui, non si dice niente, come a dire che Giacobbe vive tutto questo spoglio di sicurezze umane. Inoltre, è notte e il buio incute sempre un senso di paura.
L’attraversamento di questo torrente non significa per Giacobbe soltanto il passaggio materiale da un luogo all’altro, cioè lasciare la pianura di Aram ed entrare ormai nella terra promessa. Per lui significa anche un passaggio a livello spirituale: passare dal luogo di un’attività in proprio al luogo della promessa e dell’obbedienza. Lascia alle proprie spalle un passato sicuro e florido costruito con le sue mani, mentre davanti ha soltanto le promesse di Dio come garanzia e, insieme, l’incognita dell’incontro con il fratello.
Stranamente, contro tutte le usanze, Giacobbe fa guadare il torrente di notte. Tutto avviene nel buio della notte. Eppure, questa è la notte in cui finalmente Giacobbe – sembra un paradosso – arriva definitivamente a veder chiaro nella propria vita. Infatti, l’episodio misterioso della lotta gli svela che, fino a quel momento, tutta la sua vita è stata, in fondo, una lotta con Dio. In tutte le maniere ha voluto provare a se stesso e agli altri di essere capace di stare in piedi da solo; ha costruito passo per passo con le sue forze e la sua furbizia la sua piccola “torre di Babele”. Ora, in preda alla paura, scopre tutte le crepe di questa storia di cui egli andava fiero. Improvvisamente, la paura, la lacerazione familiare, la preoccupazione per il domani lo fanno sentire un uomo profondamente solo. In questa situazione interiore avviene la lotta misteriosa con Dio. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

8 Gennaio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 8 Gennaio 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo la pausa natalizia riprendiamo la vicenda di Giacobbe. L’abbiamo lasciato in preda alla paura, al pensiero che il fratello Esaù, che non vede da parecchi anni, gli sta andando incontro con una scorta di quattrocento uomini. In questa situazione drammatica, la scelta di Giacobbe è sorprendente: non più come in passato il ricorso ad un’astuzia, ma il ricorso alla preghiera.

Poi Giacobbe disse: “Dio del mio padre Abramo e Dio del mio padre Isacco, Signore, che mi hai detto: Ritorna al tuo paese, nella tua patria e io ti farò del bene,  io sono indegno di tutta la benevolenza e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo. Con il mio bastone soltanto avevo passato questo Giordano e ora sono divenuto tale da formare due accampamenti. Salvami dalla mano del mio fratello Esaù, perché io ho paura di lui: egli non arrivi e colpisca me e tutti, madre e bambini! Eppure tu hai detto: Ti farò del bene e renderò la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non si può contare” (32,11-13)

È una preghiera fatta con umiltà, ben diversa da quella fatta nella notte del sogno. Là si manifestava come un uomo fiducioso nelle proprie forze, al punto da avanzare quasi la pretesa di voler insegnare a Dio e di dettargli le sue condizioni. Ora, invece, in questa preghiera si manifesta come un uomo che ha preso coscienza del proprio limite di creatura. Infatti, si affida a Dio dicendogli: “Salvami”
Questa espressione “Salvami” – ha affermato recentemente Benedetto XVI – “è il grido dell’uomo di ogni tempo, che sentendo di non farcela da solo a superare difficoltà e pericoli” avverte il “bisogno di mettere la sua mano in una mano più grande e più forte…”.  Questo grido – continua Benedetto XVI – pone l’uomo in tutta verità davanti a Dio: infatti, “Dio è il Salvatore, noi quelli che si trovano nel pericolo. Lui è il medico, noi i malati” (Messaggio Urbi et Orbi, Natale 2011)
Dunque, Giacobbe prega in tutta verità e nella preghiera fa memoria della promessa di Dio: “Mi hai detto: ritorna al tuo paese… ti farò del bene e renderà la tua discendenza come la sabbia del mare”. È un particolare significativo perché sta a dire che ormai, per Giacobbe, conta solo questa luce che promana dalla promessa di Dio. Tutto il resto non conta più niente. Non conta più la ricchezza accumulata, il lavoro svolto, l’esperienza acquisita, i successi ottenuti. Anche la famiglia passa in secondo piano. Ciò che conta è il fatto che Dio gli ha detto: “ritornerai” e che farà brillare su di lui la sua benedizione. A questa promessa, che ormai sta diventando il filo conduttore della sua vita, Giacobbe si affida.
Il suo affidamento si esprime con parole scarne e semplici. Si potrebbe dire che è l’essenzialità e la semplicità di un uomo che sta muovendo i primi passi della sua esperienza di Dio e, quindi, fatica ad esprimersi in modo compiuto. Ma forse, più verosimilmente, la sua è la fatica tipica del credente che, davanti all’esperienza autentica di Dio, sperimenta l’inadeguatezza delle parole umane per esprimere ciò che sta vivendo.

 

Don Luigi Pedrini

18 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 18 Dicembre 2011

Mentre Giacobbe continuava il viaggio, gli si fecero incontro gli angeli di Dio. Giacobbe al vederli disse: “Questo è l’accampamento di Dio” e chiamò quel luogo Macanaim (Gen 32,2-3)

Carissimi Parrocchiani,

accennavo l’altra volta ad un’inaspettata presenza degli angeli sul cammino di Giacobbe che sta ritornando alla sua casa natale e si prepara all’incontro con il padre anziano Isacco e col fratello Esaù.
Cosa significa questo particolare? Sappiamo che gli angeli sono i messaggeri di Dio, coloro cioè  che aiutano l’uomo a leggere gli eventi all’interno della benevolente e misteriosa disposizione di Dio. Il fatto che Giacobbe “veda” gli angeli sul suo cammino sta a dire che egli è un uomo che va aprendosi alle illuminazioni di Dio e, di conseguenza, è in grado di percepire messaggi nuovi. Ora che i suoi occhi e il suo cuore si sono aperti, tutto è per lui portatore di un messaggio. Da quando si è messo in cammino, le persone che incontra, la terra che attraversa, il cielo che lo sovrasta, tutto parla un linguaggio nuovo. Giacobbe sta diventando un uomo “riflessivo” che, da adesso in avanti, non ha altro interesse se non quello di comprendere il messaggio che Dio vuole offrirgli.

Ma torniamo alla nostra vicenda. Ora Giacobbe è in procinto di rientrare nella sua terra natale. Pensando al prossimo incontro con il fratello, col quale ormai da tanti anni non ha più alcun contatto, e considerando i cattivi rapporti con cui si erano lasciati quando era fuggito dalla casa paterna, si rende conto che questo incontro merita un’attenta preparazione.

Poi Giacobbe mandò avanti a sé alcuni messaggeri al fratello Esaù, nel paese di Seir, la campagna di Edom. Diede loro questo comando: “Direte al mio signore Esaù: Dice il tuo servo Giacobbe: Sono stato forestiero presso Làbano e vi sono restato fino ad ora (Gen 32,4-5).

Con umiltà e rispetto Giacobbe fa i suoi preparativi. Rinuncia ad ogni presunzione e, contrariamente alla sua indole, ora non intende più fare alcun ricorso ad astuzie e a sotterfugi.
Ma ecco che cosa accade:

I messaggeri tornarono da Giacobbe, dicendo: “Siamo stati da tuo fratello Esaù; ora egli stesso sta venendoti incontro e ha con sé quattrocento uomini”. Giacobbe si spaventò molto e si sentì angosciato; allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli. Pensò infatti: “Se Esaù raggiunge un accampamento e lo batte, l’altro accampamento si salverà”.

La notizia crea grande turbamento nel cuore di Giacobbe e una profonda angoscia si impadronisce di lui.

Don Luigi Pedrini

11 Dicembre 2011

San Leonardo Confessore (Linarolo), 11 Dicembre 2011

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo lasciato Giacobbe che, in procinto di riprendere la via del ritorno nella sua terra natale, chiede alle mogli se sono disposte a lasciare il padre Labano e a seguirlo. Ed ecco la risposta e il seguito degli eventi.

Rachele e Lia gli risposero:

“Abbiamo forse ancora una parte o una eredità nella casa di nostro padre? Non siamo forse tenute in conto di straniere da parte sua, dal momento che ci ha vendute e si è anche mangiato il nostro danaro? Tutta la ricchezza che Dio ha sottratto a nostro padre è nostra e dei nostri figli. Ora fà pure quanto Dio ti ha detto”.

Allora Giacobbe si alzò, caricò i figli e le mogli sui cammelli e condusse via tutto il bestiame e tutti gli averi che si era acquistati, il bestiame che si era acquistato in Paddan-Aram, per ritornare da Isacco, suo padre, nel paese di Cànaan.
Làbano era andato a tosare il gregge e Rachele rubò gli idoli che appartenevano al padre.
Giacobbe eluse l’attenzione di Làbano l’Arameo, non avvertendolo che stava per fuggire; così potè andarsene con tutti i suoi averi. Si alzò dunque, passò il fiume e si diresse verso le montagne di Gàlaad (Gen 31,14-21).

Dalle parole di Rachele e di Lia si comprende che i rapporti che avevano con il padre non erano dei migliori; accettano la proposta di Giacobbe e si mettono in cammino.
Tutto avviene in fretta, perché Giacobbe intende sfruttare i pochi giorni di vantaggio che ha sullo zio, impegnato ancora per un po’ di tempo nella tosatura del gregge. Il suo viaggio di Giacobbe, però, procede molto lentamente avendo con sé le mogli e i bambini e, così, lo zio, una volta informato, lo insegue e lo raggiunge quando ormai sta per entrare nella terra di Canaan.
Labano accusa il nipote ed egli si difende; chiede che gli siano restituiti gli idoli che teneva con sé, ma Rachele con l’inganno glielo impedisce. Alla fine, Giacobbe, approfittando della superstizione dello zio, riesce a convincerlo a non reagire in modo scomposto e, anzi, alla fine, zio e nipote si lasciano stringendo tra loro un patto di aiuto reciproco. Così, Labano ritorna a casa e Giacobbe, può, finalmente riprendere il suo cammino.
Da questo momento in avanti Giacobbe non è più l’uomo di prima e il testo biblico ne dà testimonianza. Infatti, a partire dal cap 32 ce lo descrive come un uomo che va assumendo i tratti dell’onestà e della religiosità; va progressivamente liberandosi dell’uomo vecchio che lo spingeva ad imbrogliare con le più abili astuzie e va rivestendo l’uomo nuovo che si rimette alla fedeltà di Dio. La voce che è tornata a farsi sentire ha acceso in lui il desiderio di andare fino in fondo, di veder chiaro nella sua vita e di riappropriarsi della sua storia. Si può dire che Giacobbe è un uomo che sta rinascendo: con uno sguardo nuovo sta imparando a guardare la vita. È significativo, al riguardo, il fatto che all’inizio del cap. 32 si parla, inaspettatamente, della presenza di angeli sul suo cammino. Ma di questo parleremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini