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01 Luglio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 01 Luglio 2012

Carissimi Parrocchiani,

prima di entrare nella vicenda Giuseppe, voglio dire una parola sul nostro pellegrinaggio di fede. Concludevo, l’ultima volta, dicendo che nel pellegrinaggio intcriore di Giuseppe possiamo leggere qualcosa anche del nostro cammino di fede. Tuttavia, dobbiamo aggiungere che il nostro pellegrinaggio, pur presentando delle costanti comuni a tutti, rimane molto personale. Ne deriva che ciascuno ha il suo pellegrinaggio da fare; un pellegrinaggio unico, originale, insostituibile, che affonda le radici nella liberalità del disegno di Dio su di noi per cui Egli chiama a una certa missione “chi” vuole e “come” vuole.

Questa liberalità di Dio si riscontra in tutto il libro della Genesi e anche nella vicenda di Giuseppe. Così, ad esempio, ritornando all’accenno che ho fatto sulle Toledot, se noi andiamo a leggere attentamente a questo riguardo il libro della Genesi, scopriamo che ci sono famiglie “scelte” da Dio e che entrano a pieno titolo nella discendenza “ufficiale” di Israele, quella cioè che costituirà la linea dividica da cui nascerà Gesù, e ci sono famiglie che passano in ombra per scomparire, poi, completamente. Accade, così, che nella discendenza di Isacco la famiglia di Giacobbe entra nel solco della promessa di Abramo, mentre quella di Esaù a un certo punto scompare; , ugualmente, in precedenza, nel solco della promessa era entrato Isacco e non Ismaele.

Dunque, dobbiamo prendere atto di questo fatto strano, almeno a prima vista: qualcuno viene scelto; qualcun altro messo da parte; Dio è padre di tutti – come la Scrittura testimonia – e, tuttavia, sceglie alcuni e non altri; ama tutti indistintamente, ma elegge qualcuno sugli altri e, così, sceglie Isacco e non Ismaele; Giacobbe e non Esaù; il popolo di Israele e non l’Egitto…

Anche la storia di Giuseppe presenta questo paradosso. È la storia di una famiglia in cui i fratelli si dividono tra loro perché non accettano che Dio usi delle “preferenze” nei loro confronti. Vorrebbero essere trattati tutti allo stesso modo.

In realtà, dietro questa aspettativa, sta la pretesa di voler imporre a Dio la “non scelta”, una generica uniformità nel suo rapportarsi con loro. E, invece, l’amore di Dio non è mai un generico voler bene anonimo e uniforme: è un voler bene “personale” che suscita, pertanto, delle differenze.

La vicenda di Giuseppe ci mette di fronte a dodici fratelli diversi: ciascuno ha la propria storia, ha un modo personale di rapportarsi a Dio e anche Dio nel rapportarsi con ciascuno ha rispetto per la sua originalità.

In questa prospettiva, ascoltando questa storia, noi vedremo prendere risalto il tema della “runica dalle lunghe maniche”, una tunica cucita da Giacobbe stesso per Giuseppe ed espressione dell’amore di predilezione che ha per lui. Attorno a questa tunica si costruisce tutta la vicenda.

Questa tunica è simbolo dell’amore personale con cui Dio ama ogni suo figlio; è rimando a quel è “nome nuovo” che solo Dio conosce e che con assoluta libertà vuole donare e svelare a ciascuno. Così ognuno di noi pensando a Giuseppe può pensare alla “tunica” che ha ricevuto da Dio, espressione dell’amore personale con cui Dio ama ciascuno. Egli ama tutte le persone che conosciamo, tra le quali ci sono anche persone anche più brave di noi. Eppure, il Signore ha scelto noi per la strada che stiamo percorrendo e questo è frutto semplicemente della sua liberalità.

Don Luigi Pedrini

24 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 24 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

come accennavo la settimana scorsa, il racconto della vicenda di Giuseppe appartiene all’ultima storia familiare (toledòt) narrata nel libro della Genesi. Ed è una storia esemplare.

 Le storie precedenti non offrono sempre nel loro soggetto più rappresentativo un comportamento esemplare: si pensi al comportamento riprovevole assunto da Abramo in Egitto, alla corte del faraone, nel tentativo di salvare la propria vita; si pensi alle diverse astuzie messe in atto da Giacobbe pur di raggiungere quanto gli stava a cuore.

 Giuseppe, invece, secondo la tradizione biblica, incarna l’immagine dell’uomo di cui Dio si compiace: onesto, leale nell’assolvere i propri doveri, trasparente nei comportamenti, capace di perdonare; accorto nell’amministrare i beni terreni… Giuseppe realizza in modo esemplare la figura biblica dell’uomo timorato del Signore.

 La tradizione cristiana, da parte sua, ha visto Giuseppe come una delle prefigurazioni più significative di Gesù, in quanto artefice di riconciliazione con Dio, con i fratelli, con le cose. I Padri, in particolare, hanno letto alcuni episodi della sua vita come anticipazioni profetiche di Gesù. Così, ad esempio, in Giuseppe rifiutato dai fratelli hanno visto prefigurato Gesù pure rifiutato dai “suoi”, come attesta san Giovanni nel suo Vangelo: “Venne tra i suoi,e i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11); in Giuseppe venduto dai fratelli hanno visto la prefigurazione di Gesù venduto da uno degli apostoli; in Giuseppe, fratello rifiutato che diventa il perno della rinascita della sua famiglia hanno visto Gesù quale pietra scartata che diventa pietra d’angolo della grande famiglia della Chiesa, nella quale tutti ci riconosciamo fratelli.

 Ma forse l’aspetto più avvincente di tutta la vicenda sta nel fatto che Giuseppe è giunto a questo vertice di perfezione attraverso un lungo cammino di purificazione e di maturazione di fede: infatti, all’inizio del racconto noi incontriamo un giovincello piuttosto ingenuo, forse anche un po’ viziato; alla fine, scopriamo in Giuseppe la figura dell’uomo saggio, pienamente aperto a Dio e insieme dedito ai fratelli. Tra queste due immagini, a fare come da ponte, c’è un lungo e paziente pellegrinaggio umano e spirituale che l’ha portato a diventare un uomo di fede e un testimone del volto misericordioso di Dio.

 Nella riflessione che intendo proporre vorrei far luce sul pellegrinaggio interiore di Giuseppe: vi si può leggere qualcosa del cammino di fede di ogni credente e, quindi, anche del nostro.

 

Don Luigi Pedrini

 

17 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 17 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

dopo qualche domenica di pausa, riprendiamo la storia di Giuseppe che abbiamo da poco iniziato. Essa costituisce nel libro della Genesi il punto più alto della cammino di ricostruzione messo in atto da Dio dopo il peccato originale.

Il libro, dopo aver narrato nei primi due capitoli la creazione della terra e di ogni essere vivente lasciando intravedere la bontà e la sapienza che animano il progetto creativo di Dio, narra il deteriorarsi dell’armonia iniziale.

In particolare, questo progetto contemplava la positiva relazione dell’uomo con Dio; con i fratelli e con i beni della terra. Questa triplice relazione, costituiva per la vita dell’uomo, si è gravemente compromessa a causa del peccato: la disobbedienza dei progenitori ha messo in crisi la relazione con Dio; il peccato di Caino ha inquinato il rapporto con i fratelli; il peccato dei costruttori della torre di Babele rivela un rapporto distorto con i beni della terra.

A partire dal capitolo 12 inizia il racconto della storia di Abramo, a cui fa seguito dal capitolo 25 quello di Giacobbe e dal capitolo 37 quello di Giuseppe. Queste storie si possono interpretare come le tre strade indicate da Dio quale rimedio ai tre peccati: indicano, dunque, i passi verso una progressiva riconciliazione e, quindi, piena riabilitazione del progetto originario di Dio.

In questa prospettiva, Abramo è colui che risana la prima relazione, attraverso una fede amorosa e obbediente; Giacobbe risana la seconda relazione riconciliandosi con il fratello Esaù; Giuseppe, sintetizzando in sé sia Abramo che il padre Giacobbe, attua tutte e tre le riconciliazioni: è un uomo di fede che vive alla presenza di Dio; si riconcilia con i fratelli al termine di un lungo cammino di purificazione; ha un giusto rapporto con la terra, tanto che, nonostante la carestia, fa prosperare l’Egitto, grazie alla sua saggezza politica ed economica.

Si comprende, allora, l’importanza che riveste la storia di Giuseppe nel libro della Genesi.

Un’ultima nota prima di entrare nella vicenda. Giacobbe è anche il capostipite di una delle grandi “discendenze” (“toledòt” = origini, genealogia, discendenza) che vengono menzionate nel libro della Genesi. Si parla dell’origine (toledòt) del cielo e della terra (Gen. 2,4ss); della genealogia (toledòt) di Adamo (Gen 5,1ss); quindi, della discendenza (toledòt) di Caino (Gen 4,17ss), di Noé (Gen 10,1ss), di Sem (Gen 10,21ss; 11,10), di Terach-Abramo (Gen 11,27ss), di Ismaele (Gen 15,12ss), di Esaù (Gen 36,9) e, infine, di Giacobbe (Gen. 37,2ss).

La storia di Giacobbe-Giuseppe rientra nell’ultima delle “toledòt” ricordate dalla Genesi. Tranne la prima – che si riferisce all’origine del cielo e della terra – le altre sono tutte storie di famiglie.

 

Don Luigi Pedrini

 

03 Giugno 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 03 Giugno 2012

Carissimi Parrocchiani,

 tralascio anche per questa domenica la vicenda di Giuseppe, perché voglio dire una parola sulla festa di oggi – la SS.ma Trinità – e sul Convegno Mondiale delle Famiglie che si sta svolgendo a Milano con la presenza anche di Benedetto XVI.

La Trinità è un mistero grande: noi crediamo l’unico Dio che è Padre e Figlio e Spirito Santo. Per noi è impossibile dare una spiegazione della Trinità e, tuttavia, possiamo darne una ragione. Gesù ci ha detto che ultimamente Dio si può definire come “Amore”. Ora se Dio è amore in se stesso, non può essere un Dio solitario, perché amerebbe soltanto se stesso. Per questo Dio è comunione di persone, amore che si esprime nel dono di sé.

Questo amore che ci ha generato sarà anche il nostro punto di arrivo. All’inizio della nostra vita, così come al termine della vita sta l’amore di Dio. Nel mezzo sta la nostra libertà che può accogliere, fidarsi, corrispondere, oppure può chiudersi nell’indifferenza o nel rifiuto.

Accogliere l’amore di Dio vuol dire corrispondervi e testimoniarlo con l’amore verso questa nostra umanità, specialmente verso quanti tra noi sono più nel bisogno: penso, in particolare, in questo momento alle famiglie di sfollati a causa del terremoto.

L’amore verso Dio implica un sì di amore verso l’umanità. Come cristiani diciamo di sì a tutto ciò che è autenticamente umano e costruisce l’uomo e, viceversa, diciamo no a tutto quello che invece diminuisce l’uomo e ne compromette la dignità.

A questo mira anche il Convegno Mondiale delle famiglie che si concluderà oggi a Milano con il significativo tema che si è dato: “La famiglia, il lavoro, la festa”. La chiesa, illuminata dal Vangelo, dice di sì al valore della famiglia, del lavoro, della festa”.

Contro una società che non difende più la famiglia, che rischia di ridurre il lavoro a qualcosa di disumano pressato dalle esigenze del mercato, che ha perso il senso della festa scaduta soltanto a tempo libero a disposizione per l’evasione e il divertimento, la Chiesa richiama il loro valore autentico.

Oggi in sostanza il messaggio che le famiglie cristiane provenienti da tutto il mondo e riunite a Milano lanciano a tutti potremmo riassumerlo così: “Vale la pena di essere famiglia, di testimoniarne la bellezza e di battersi perché sia riconosciuta e valorizzata. Vale la pena di impegnarsi nel e per il lavoro che è una parte importante della nostra vocazione di persone, custodisce la nostra dignità, ci dà il necessario per vivere, ci permette di contribuire al bene comune. Vale la pena di ricordare che il tempo non è tutto uguale e che il tempo della festa non è un vuoto che ciascuno riempie a piacimento, ma un luogo che va rispettato, amato e difeso proprio come parte di noi stessi, come una patria. La festa ci fa ritrovare la nostra appartenenza: siamo di Dio, in Gesù Cristo, per mezzo dello Spirito”.

Il lavoro e la festa sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le relazioni tra i coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen. 1-2) ci dice che famiglia, lavoro e giorno festivo sono doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana (Dalla Lettera di Benedetto XVI per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie)

Don Luigi Pedrini

27 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 27 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,
oggi, domenica 27 c.m., alle ore 11.15. il nostro Vescovo Mons. Giovanni Giudici, conferirà il sacramento della Confermazione a dodici ragazzi e ragazze nella nostra chiesa parrocchiale

Questi sono i loro nomi:

Battaglia Maria Sofia
Broglia Luca
Cera Alessandro
Colucci Anastasia
Corda Elisa
D’Introno Nicol
Ferrari Francesca
Lanterna Stefano
Mordà Rebecca
Patrono Sara
Ramaioli Stefano
Saletta Riccardo

 

Mentre ringraziamo il Signore per questo dono che è sempre un momento importante nel cammino di una comunità e ci fa sentire come famiglia nella Chiesa, siamo loro vicini con il ricordo e con la preghiera.

Don Luigi Pedrini

20 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 20 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

 

da questa domenica cominciamo a seguire il cammino di Giuseppe, figlio di Giacobbe, mettendoci in ascolto dei capitoli 37-50 del libro della Genesi. Questi capitoli costituiscono il cosiddetto “Ciclo di Giuseppe”. Giuseppe è, dunque, il protagonista della terza grande storia patriarcale.

Pertanto, il libro della Genesi, dopo la grande introduzione sulle origini (con i racconti della creazione; i racconti dei tre peccati di origine: quello dei progenitori, di Caino, dei costruttori della Torre di Babele; il racconto della vicenda di Noè), si sviluppa chiaramente in tre parti: il “Ciclo di Abramo” (dal cap. 12 al 25); il “Ciclo di Isacco e Giacobbe” (dal cap. 26 al 36); il “Ciclo di Giuseppe” (dal cap. 37 al 50).

 

Il ciclo di Giuseppe è il più lungo. A differenza dei due precedenti che sono più frammentati è molto armonico e unitario. È un ciclo di grande bellezza, “una preziosa corona che dà splendore a tutti i personaggi precedenti” (C.M. Martini, Due pellegrini per la giustizia, Piemme 1992, p. 28). A prova della ricchezza umana e poetica del testo sta il fatto che uno scrittore come Thomas Mann ne abbia ricavato un romanzo di ben quattro volumi.

Nonostante questo, il ciclo inizia in modo modesto. Non solo non possiede un prologo che faccia da introduzione a Giuseppe, protagonista della vicenda, ma addirittura inizia ancora con la menzione di Giacobbe. Nei primi due versetti del cap. 37 si legge:

 

Giacobbe si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero, nel paese di Canaan. Giuseppe e i suoi fratelli. Questa è la storia della discendenza di Giacobbe. Giuseppe all’età di diciassette anni pascolava il gregge con i fratelli. Egli era giovane …

 

Il passaggio da Giacobbe a Giuseppe avviene in modo repentino e, una volta introdotti nel nuovo ciclo, assistiamo qua e là a dei ritorni al ciclo precedente: ci sono, infatti, dei testi in cui Giacobbe ritorna ad essere il protagonista della vicenda. Si verifica, così, un processo di sovrapposizione tra Giacobbe e Giuseppe, tra padre e figlio. Il figlio entra in scena e giunge ad essere protagonista mentre il padre è ancora in vita. D’altra parte, il padre è sempre sullo sfondo e rimane il punto di riferimento ultimo di tutta la vicenda: infatti, il racconto ruota attorno all’esigenza di riscoprire, da parte di tutti i figli, il dono della paternità e, quindi, di accettare in modo pacifico anche il dono della fraternità.

Ha ragione pertanto Schokel quando afferma che il riferimento al padre, è “il polo unificante nella coscienza dei fratelli” (A. Schokel, Giuseppe e i suoi fratelli, Paideia, Roma 1985, p. 12).

 

Don Luigi Pedrini

13 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 13 Maggio 2012

Carissimi Parrocchiani,

ci avviamo a concludere la vicenda di Giacobbe, un uomo che, forgiato dalle prove della vita e raggiunto dall’iniziativa con cui Dio ha fatto irruzione nella sua vita, è ormai un credente maturo che desidera comprendere il senso degli avvenimenti per corrispondere in tutto al disegno di Dio su di lui.

Gli anni della maturità di fede sono, però, anche segnati da alcuni avvenimenti assai dolorosi: il comportamento riprovevole dei figli gli procura non poche sofferenze; la morte prematura di Rachele apre in lui una ferita profonda.

Un altro fatto doloroso viene ad aggiungersi in questa situazione già molto provata: la morte del padre Isacco.

 Poi Giacobbe venne da suo padre Isacco a Mamre, a Kiriat-Arba, cioè Ebron, dove Abramo e Isacco avevano soggiornato come forestieri. Isacco raggiunse l’età di centottant’anni. Poi Isacco spirò, morì e si riunì al suo parentado, vecchio e sazio di giorni. Lo seppellirono i suoi figli Esaù e Giacobbe (Gen 35,27-29)

 Dunque, la situazione che viene a crearsi attorno a Giacobbe è davvero tragica: i figli che commettono cose orrende; la perdita della moglie amata prima e, poco dopo, del padre.

Come vive Giacobbe tutto questo? Condivido quanto afferma, al riguardo, P. Stancari: “Giacobbe vive tutto questo con animo di penitente” (P. Stancari, I patriarchi, CENS, Milano 1994, p. 112). Nel dolore che lo ferisce egli coglie anche una misteriosa forza purificatrice del male che ha commesso in passato e che ha adombrato la sua vita. In questo modo, Giacobbe riesce dare un senso al suo dolore: non un dolore sterile foriero di morte, ma un dolore che ha la fecondità di un parto. “Là dove Giacobbe sembra condannato ad una dolorosa sterilità – scrive ancora P. Stancari – è, invece, sempre più disponibile all’incontro, alla buona accoglienza, al perdono, al gesto di pietà, alla compassione per ogni creatura” (Idem).

Con il v. 1 del cap 37 – nel quale si specifica che “si stabilì nel paese dove suo padre era stato forestiero” – si conclude sostanzialmente la storia di Giacobbe. Anche se ancora presente ed espressamente nominato nei capitoli successivi, tuttavia, non è più ormai al centro dell’attenzione. Il nuovo protagonista è Giuseppe, il figlio primogenito generato da Rachele.

Termina qui il nostro commento alla vicenda di Giacobbe. Con la prossima volta inizieremo il commento al ciclo di Giuseppe, l’altra perla narrativa che il libro della Genesi offre dopo il ciclo di Abramo e quello di Giacobbe.

 

Don Luigi Pedrini

 

06 Maggio 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 06 Maggio 2012

abbiamo già ricordato alcuni fatti dolorosi accaduti nella famiglia di Giacobbe e che feriscono il suo cuore. Dobbiamo, però, subito aggiungere che anche in mezzo a queste difficoltà, il dialogo tra Dio e Giacobbe non solo non si interrompe, ma si fa sempre più profondo.

Dio apparve un’altra volta a Giacobbe, quando tornava da Paddan-Aram, e lo benedisse. Dio gli disse: “Il tuo nome è Giacobbe. Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome”. Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: “Io sono Dio onnipotente. Sii fecondo e diventa numeroso, popolo e assemblea di popoli verranno da te, re usciranno dai tuoi fianchi. Il paese che ho concesso ad Abramo e a Isacco darò a te e alla tua stirpe dopo di te darò il paese”. Dio scomparve da lui, nel luogo dove gli aveva parlato (Gen 35,9-13).

Dunque, Dio interviene, parla a Giacobbe, gli cambia il nome (cioè, gli dona una nuova identità) lo chiama Israele (a significare il popolo che nascerà dalla sua discendenza e che porterà il suo nome), gli fa delle promesse.

Ma ecco il fatto doloroso che accade:

 Poi, levarono l’accampamento da Betel. Mancava ancora un tratto di cammino per arrivare ad Efrata, quando Rachele partorì ed ebbe un parto difficile. Mentre penava a partorire, la levatrice le disse: “Non temere: anche questo è un figlio!”. Mentre esalava l’ultimo respiro, perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-Oni, ma suo padre lo chiamò Beniamino. Così, Rachele morì e fu sepolta lungo la strada verso Efrata, cioè Betlemme. Giacobbe eresse sulla sua tomba una stele. Questa stele della tomba di Rachele esiste fino ad oggi (Gen 35,16-20).

Giacobbe perde improvvisamente la moglie amata. Ella, prima di morire propone di chiamare il figlio Ben-Oni che, letteralmente, significa ‘figlio del mio dolore’, volendo così sottolineare la fecondità di quella morte e, quindi, riscattarla, in certa misura, dal non senso e dall’assurdità. Giacobbe, però, decide di chiamare quel figlio Beniamino che, letteralmente, significa ‘figlio della mano destra’, cioè ‘portatore di eventi favorevoli’.

Questo particolare rivela che Giacobbe, anche in mezzo al dolore, è un uomo capace di speranza. La tragedia familiare lo ha ferito profondamente; d’ora in avanti è come se cessasse la sua vita di uomo sposato: è significativo al riguardo che i versetti immediatamente seguenti riferiscano i nomi dei suoi figli reputando la sua discendenza come un fatto concluso. E, nonostante tutto questo, egli continua a credere ad un futuro di speranza.

Don Luigi Pedrini

29 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 29 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,

in seguito al fatto doloroso di cui si sono resi protagonisti i suoi figli, Giacobbe si vede costretto a lasciare Sichem.

Nel frattempo medita di fare un pellegrinaggio a Betel. Betel è il luogo in cui Dio gli era apparso nel sogno, durante la fuga dal fratello Esaù, all’inizio del lungo viaggio che lo avrebbe condotto dallo zio Làbano. Quella notte Giacobbe, per la prima volta, aveva vissuto un vero incontro personale con Dio e aveva anche promesso che, nel caso di un esito positivo del viaggio e della permanenza presso lo zio, avrebbe accolto Dio che gli aveva parlato come il “suo” Dio e quel luogo sarebbe diventato una “casa di preghiera”: Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo […] se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio” (Gen 28,20-22). Ora Giacobbe, vuole adempiere quel voto. Ma, mentre sta pensando di fare da solo questo pellegrinaggio, Dio interviene ed imprime una nuova svolta agli avvenimenti.

 

Dio disse a Giacobbe: “Alzati, và a Betel e abita là; costruisci in quel luogo un altare al Dio che ti è apparso quando fuggivi Esaù, tuo fratello”. Allora Giacobbe disse alla sua famiglia e a quanti erano con lui: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi e cambiate gli abiti. Poi alziamoci e andiamo a Betel, dove io costruirò un altare al Dio che mi ha esaudito al tempo della mia angoscia e che è stato con me nel cammino che ho percorso”(Gen 35,1-3).

 

Si può notare la naturalezza con cui nel testo si riferisce l’iniziativa di Dio e la prontezza di Giacobbe nell’accogliere le sue parole. Giacobbe è, ormai, il credente che sta imparando a dialogare giorno per giorno con Dio e a camminare continuamente alla sua presenza. Forte di questa illuminazione dall’alto, egli convince i membri della sua famiglia a rimettersi in cammino, non senza prima chiedere anche a loro un passo ulteriore di avvicinamento a Dio e un gesto di purificazione, dopo il male che ha segnato la famiglia: “Eliminate gli dei stranieri che avete con voi, purificatevi…”.

Si verifica, però, a questo punto, un altro fatto sconcertante che apre profondi interrogativi nel cuore del patriarca. Il testo riferisce che “essi consegnarono a Giacobbe tutti gli dei stranieri che possedevano e i pendenti che avevano agli orecchi” e che “Giacobbe li sotterrò sotto la quercia presso Sichem” (Gen 35,4). Ora, tra questi “dei stranieri”, Giacobbe scopre anche le statuette che, a suo tempo, la moglie Rachele aveva sottratto al padre Làbano. Questo furto era stato una ragione dell’attrito tra zio e nipote. Infatti, quando lo zio lo raggiunge nel viaggio che determinerà la loro separazione definitiva rivendica, tra l’altro, la restituzione delle statuette. In quell’occasione Giacobbe, che era all’oscuro del fatto, aveva preso le difese di tutti i familiari e aveva rassicurato lo zio dicendo che se un giorno avesse scoperto l’autore del furto, questi non sarebbe rimasto in vita.

Ora Giacobbe scopre che il furto è stato opera di Rachele, la moglie amata. È una scoperta dolorosa che crea in lui un grande turbamento. Nel suo cuore c’è un affastellarsi di pensieri contradditori che lo riempiono di costernazione. La morte repentina di Debora, nutrice di Rebecca, che avviene proprio a Betel (Gen 35,8), viene a gettare ancor più un’ombra cupa sulla vicenda.

 Don Luigi Pedrini

22 Aprile 2012

San Leonardo Confessore (Linarolo), 22 Aprile 2012

Carissimi Parrocchiani,
accennavo la settimana scorsa ai guai a cui Giacobbe è andato incontro subito dopo il suo insediamento nella terra di Canaan. Ed, ecco, come sono andate le cose.
Giacobbe ha una figlia, Dina. Un giorno decide di scendere in città per vedere come usano vestirsi le ragazze del luogo. Accade, però, che la sua presenza non passa inosservata e un giovane, di nome Sichem, abusa di lei. Il testo mette in luce che Sichem, pur avendo sbagliato, è tuttavia sinceramente innamorato della ragazza e vorrebbe sposarla. Intanto, Giacobbe viene informato: “Intanto Giacobbe aveva saputo che quegli aveva disonorato Dina, sua figlia, ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame. Giacobbe tacque fino al loro arrivo” (Gen, 34,5)
“Aveva saputo”, “tacque”. Giacobbe, come già accennavo, è ormai un uomo che sa ascoltare in silenzio. Non è più l’uomo scaltro che aveva una soluzione brillante in qualunque situazione. Ora, è un uomo che, quantunque profondamente ferito dal male, ascolta rimanendo in silenzio.
Il dramma è costituito dal seguito della vicenda. Al ritorno dal lavoro, anche i figli sono informati del fatto. Si decide di avviare le trattative per stipulare il matrimonio, senonché, due figli – Levi e Simeone – decidono di vendicare l’offesa subita e escogitano un piano subdolo per uccidere Sichem e i membri della sua famiglia. Ecco l’esito drammatico della vicenda.

Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem, portarono via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono. […] Saccheggiarono la città, perché quelli avevano disonorato la loro sorella. Presero così i loro greggi e i loro armenti, i loro asini e quanto era nella città e nella campagna (Gen 34,26-29).

Questa è la tragedia immane che accade nella famiglia di Giacobbe. È del tutto comprensibile il lamento che egli rivolge ai figli.

Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: “Voi mi avete messo in difficoltà, rendendomi odioso agli abitanti del paese, ai Cananei e ai Perizziti, mentre io ho pochi uomini; essi si raduneranno contro di me, mi vinceranno e io sarò annientato con la mia casa”. Risposero: “Si tratta forse la nostra sorella come una prostituta?” (Gen 34,30-31).

Dunque, i figli non ritrattano il loro operato e la cosa strana è che Giacobbe a questo punto non è più capace di replicare nulla. Commenta significativamente, al riguardo, P. Stancati:

È come se, dal giorno in cui è entrato nel suo cammino di conversione, (a Giacobbe) mancassero le parole e gli argomenti convincenti. Non sa più come persuadere coloro che dovrebbero essere più attenti ad imparare da lui il mestiere del vivere umano. È un uomo divenuto stranamente pensoso: è un vero peccatore ed è un vero convertito, per cui è un uomo che ormai sa assumere su di sé il fallimento di tutti coloro che incontra […] Lo stesso peccato altrui, certamente non approvato, è un peccato che sopporta, di cui porta il peso in sé, di cui condivide le conseguenze. È un peccatore che si guarda intorno e riconosce subito i peccatori, verso i quali non ha più nessuna complicità e convivenza, ma verso i quali sa offrire uno sguardo pietoso (p. 108).

Don Luigi Pedrini