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9 Ottobre 2016

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver aperto un confronto tra Mosè e Gesù riguardo alla loro morte continuiamo il confronto considerando la loro rispettiva risurrezione.

La cosa può sorprendere: se appare giustificato parlare di risurrezione per Gesù, non lo è altrettanto per Mosè. Ci viene, però, in aiuto il commento La vita di Mosè di san Gregorio di Nissa nel quale si legge che la morte di Mosè andrebbe interpretata come una “morte vivente”. Scrive il santo:

Che cosa dice la storia? Che Mosè, servo di Dio, morì per ordine di Jahwé, che nessuno conobbe la tomba e che i suoi occhi non si velarono, né il suo volto fu corrotto.

Noi impariamo di là che, essendo passato per tante fatiche, fu giudicato degno di essere chiamato col nome sublime di ‘servo di Dio’; ciò che equivale a dire che è stato superiore a tutto. Nessuno infatti saprebbe servire Dio senza essersi elevato al di sopra di tutte le cose del mondo. E quello è anche per lui il termine della vita virtuosa. Il fine raggiunto della vita virtuosa, operato dalla Parola di Dio, quello che la storia chiama morte, in realtà è una morte vivente, a cui non segue il seppellimento, sulla quale non si eleva una tomba e che non porta la cecità sugli occhi né la decomposizione sul viso.

 

Con queste parole san Gregorio di Nissa dice una cosa paradossale: Mosè muore, ma, essendo servo di Dio, muore in modo da far capire che in realtà vive ancora. Cioè, in sostanza si afferma che chi è servo di Dio muore, ma dalla sua morte scaturisce una nuova vita.

La paradossalità di questa affermazione è ancora più evidente se teniamo presente la messa in ombra a cui Mosè è andato incontro nella storia successiva di Israele. Come faceva notare il card. Martini, sono talmente rari e poveri i riferimenti a lui nei testi successivi dell’Antico Testamento che si può parlare di una sorta di scomparsa della sua figura nella memoria di Israele.

Tuttavia – è ancora il Card. Martini a farlo notare – per altri aspetti, Mosè rimane presente più che mai nella vita di Israele, in quanto la sua memoria è assicurata dalla permanenza dei suoi libri: la Legge, il Pentateuco. Questi libri sono fondamentali ancora oggi: lo sono per gli ebrei (in ogni sinagoga, nell’armadio in fondo, dietro il velo, ci sono solo i libri di Mosè che costituiscono per loro le Scritture); rimangono fondamentali anche per noi cristiani. Da questo punto di vista si può parlare di una permanenza oggettiva di Mosè: la sua morte è pure l’avvio di una sorta di risurrezione o di una “morte vivente”, per usare l’espressione originale di san Gregorio di Nissa.

Ora quello che è avvenuto in Mosè è avvenuto in maniera ancora più straordinaria e compiuta in Gesù. Non solo perché la sua memoria rimane viva in mezzo a noi attraverso la Scrittura e la testimonianza viva della Chiesa, ma anche e soprattutto perché Gesù è veramente il Risorto, il Vivente, Colui che è stato veramente nella morte e che veramente è ritornato in vita, ad una vita che ha vinto definitivamente la morte: Morte e vita si sono affrontate / in un prodigioso duello. / Il Signore della vita era morto, / ma  ora, vivo, trionfa (dalla Sequenza pasquale).

Pertanto quello che in Mosè, il giusto servo, è stato soltanto un lampo, un bagliore di luce, in Gesù è diventato realtà: con lui le tenebre hanno ceduto alla luce del giorno senza tramonto.

Don Luigi Pedrini

2 Ottobre 2016

Carissimi Parrocchiani,

dopo aver riferito su come è avvenuta la morte di Mosè, apriamo un confronto con la morte di Gesù per cogliere somiglianze e diversità.

Un primo particolare che crea affinità è il contesto di solitudine che caratterizza sia la morte di Mosè, sia la morte di Gesù. Anche Gesù, come Mosè, è morto ‘solo’ come annota Marco nel suo Vangelo “tutti, abbandonatolo, fuggirono” (Mc 14,50).

L’affinità però si accompagna a una profonda differenza tra queste due solitudini: la solitudine di Mosè è in un certo senso ‘voluta’ perché di sua volontà si allontana dal popolo; la solitudine di Gesù, invece, è un fatto doloroso a cui va incontro e che Egli accetta: non lui si è separato dagli altri, ma al contrario gli altri, i discepoli, per paura lo lasciano solo nel momento in cui necessita di un maggiore aiuto.

La seconda affinità la riconosciamo nello spirito di obbedienza con cui sia Mosè, sia Gesù sono andati incontro alla morte. Mosè si allontana dal popolo in obbedienza al comando di Dio; Gesù intraprende il viaggio verso Gerusalemme e si consegna ai capi religiosi di Israele che stanno tramando contro di Lui in pieno ossequio alla volontà del Padre. Lo rimarca bene san Paolo nella lettera ai Filippesi, nel famoso inno cristologico.afferma che Gesù si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,8) Anche Gesù, come Mosè, si è consegnato pienamente, senza riserve alla volontà di Dio.

Una terzo particolare che accomuna la morte di Mosè e quella di Gesù è la sofferenza.

La sofferenza che vive Mosé non è solo quella che accompagna normalmente il momento del trapasso da questa vita; non è solo quella della solitudine; è anche quella di non aver potuto realizzare fino in fondo il desiderio di entrare nella Terra promessa: egli può contemplarla dall’alto del monte, ma è impedito a entrarvi. Proprio quella terra che appartiene a lui come a nessun altro, che era diventata ormai parte della sua vita e la ragione della sua missione, non gli viene concessa.

Anche Gesù ha vissuto qualcosa di analogo: egli ha sempre vissuto per i discepoli, per loro ha dato tutto se stesso; sono diventati parte della sua stessa vita; eppure, alla fine della vita, ha vissuto la grande sofferenza di perdere tutto, di vedersi rifiutato proprio da coloro che aveva chiamato a seguirlo più da vicino.

Dunque, varie somiglianze avvicinano la morte di Mosè a quella di Gesù; tuttavia, si deve dire che la morte di Gesù è stata ancora più dolorosa e umiliante per il fatto che in essa ha avuto molta parte la cattiveria degli uomini.

 Don Luigi Pedrini

11 Settembre 2016

Carissimi Parrocchiani,

in preparazione alla settimana in cui ospiteremo la Madonna di Fatima completo la riflessione iniziata riportando, dopo la testimonianza di Lucia, quella di Francesco, rimandando alla prossima settimana quella di Giacinta.

Prendo ancora spunto dal Vangelo di domenica scorsa nel quale Gesù poneva al discepolo che vuole fare il suo stesso cammino alcune esigenze: tra queste chiedeva anzitutto la disponibilità a mettere l’amore per lui al primo posto, al di sopra di ogni altro legame affettivo. Riguardo a questa prima esigenza abbiamo visto la testimonianza di Lucia.

Gesù però nel Vangelo aggiunge una seconda esigenza: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa…? Così dicendo Egli invita il discepolo a coltivare nella propria vita spazi di silenzio attraverso i quali si raccoglie e impara a guardare le cose, gli avvenimenti con la luce superiore della fede.

Francesco possedeva questo dono di contemplazione. Già la sua indole e la sua sensibilità lo portavano spontaneamente ad un atteggiamento di riserbo e di raccoglimento. In seguito alle apparizioni questa sua propensione è emersa ancora più evidente. Ecco la testimonianza su di lui riferita da Lucia.

Un giorno ch’io (Lucia) mi mostravo scontenta della persecuzione che cominciava a scatenarsi dentro e fuori della famiglia, egli cercò di incoraggiarmi dicendo: “Lascia perdere! Non ha forse detto la Madonna che avremmo sofferto molto, per offrire riparazione al Signore e al Suo Cuore Immacolato? Sono così tristi! Se con queste sofferenze potessimo consolarLi, dobbiamo essere contenti”.

Pochi giorni dopo la prima apparizione della Madonna, arrivando al pascolo, salì su una roccia elevata, e disse: “Non venite qui; lasciatemi star solo”. “Va bene”.

E con Giacinta ricorremmo le farfalle, le prendevamo, per far poi subito il sacrificio di lasciarle andare; e non ci ricordammo più di lui.

Arrivata l’ora della merenda, vedemmo che mancava e io andai a cercarlo. “Francesco, no vuoi mangiare?”. “No. Mangiate voi”. “E a recitare il Rosario?”. “A pregare ci vengo dopo. Chiamami di nuovo”. Quando lo richiamai mi disse: “Venite voi a pregare qui vicino a me”.

Salimmo in cima alla roccia, su cui a mala pena ci stavamo in tre in ginocchio, e gli domandai: “Ma cosa stai facendo qui da tanto tempo?”. “Sto pensando a Dio, che è così triste a causa di tanti peccati! Se io fossi capace di darGli gioia!”.

Possiamo dire che la sua propensione al raccoglimento valorizzata nell’alveo della fede lo ha portato a maturare un atteggiamento molto simile a quello di Maria che secondo la testimonianza dell’evangelista custodiva e meditava tutto nel suo cuore (Lc 2,19).

 

Don Luigi Pedrini

4 Settembre 2016

Carissimi Parrocchiani,

si avvicina la settimana in cui ospiteremo in parrocchia la Madonna Pellegrina di Fatima. Per aiutarci a vivere bene questo avvenimento che penso possa essere davvero per ciascuno di noi un dono di grazia, voglio dire qualcosa riguardo ai tre pastorelli che sono stati protagonisti delle apparizioni di Maria succedutesi nel 1917 a Cova di Iria, località che si trova presso Fatima, in Portogallo. I tre pastorelli sono Lucia dos Santos che nell’anno delle apparizioni aveva 10 anni, Giacinta Marto di 7 anni e il fratello Francisco Marto di nove anni. Giacinta e Francisco erano cugini di Lucia. Non mi dilungo nel tracciare il loro profilo biografico che richiederebbe più spazio di quello che può offrire il foglio settimanale. Semplicemente raccolgo dalla vita di ciascuno una testimonianza in dialogo con il Vangelo di questa domenica. Comincio con Lucia.

Il testo evangelico si apre con un’affermazione di Gesù che non manca mai di sorprendere. Dichiara: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). A questo proposito mi sembra illuminante questo episodio della vita di Lucia da lei stessa riferita nel Seconda Memoria autobiografica scritta nel 1937. Questa testimonianza rivela da una parte il primato del Signore; dall’altra un affetto sincero e grande per la mamma mostrando che il primato nell’amore richiesto da  Gesù non sminuisce gli affetti umani, ma aiuta a viverli in pienezza e autenticità

Lucia riferisce uno dei dispiaceri che sono stati causati in famiglia dalla vicenda delle apparizioni. La risonanza degli avvenimenti di Cova d’Iria attirava folle di persone che per ragioni varie si sentivano attratte da quel luogo. I campi che circondavano il luogo delle apparizioni appartenevano alla famiglia di Lucia. Erano campi fertili da cui traevano buona parte del foraggio necessario per mantenere il loro gregge. Ora da quando le folle erano accorse tutto il raccolto era andato perduto. La mamma in alcuni momenti, esasperata per il chiasso che si era creato attorno alla famiglia, faceva pesare tutto questo a Lucia: Mia Madre, lamentando questa perdita, mi diceva: “Tu adesso, quando vorrai mangiare, andrai a chiederlo a quella Signora!. Le sorelle aggiungevano: “Tu adesso dovresti mangiare quello che si coltiva nella Cova d’Iria (Memorie di suor Lucia, Almondina, Torre Novas, 2007, 89).

Lucia dichiara che queste parole la addoloravano molto al punto che non aveva il coraggio di prendere un pezzo di pane per mangiare. La mamma era alquanto irretita per la questione delle apparizioni a motivo dei tanti fastidi che ne erano derivati per la famiglia. D’altra parte vedendo Lucia che soffriva nel fisico e dimagriva molto, temendo che si ammalasse, cercava di trattenersi. Ed ecco la considerazione di Lucia: Povera mamma! Adesso sì, capisco veramente la situazione in cui si trovava e ne sento compassione! In realtà aveva ragione nel giudicarmi indegna di tal favore e perciò di credermi bugiarda. Per grazia speciale del Signore, non ebbi mai il minimo pensiero o la minima reazione contro il suo comportamento verso di me. Siccome l’Angelo aveva annunciato che Dio m’avrebbe inviato sofferenze, in tutto questo vidi sempre Dio, che così voleva. L’amore, la stima e il rispetto che le dovevo, continuarono ad aumentare sempre, come se io fossi molto carezzata. E ora le sono più riconoscente di avermi trattata così, che se avesse continuato ad educarmi tra premure e carezze (Ibidem, 89-90).

Don Luigi Pedrini

21 Agosto 2016

Carissimi Parrocchiani,

            dalla scorsa settimana ci siamo messi in ascolto dei testi nei quali si parla della morte di Mosè. Oltre a Dt 31,1-8, testo sul quale già ci siamo fermati, dobbiamo ricordare altri due testi: Dt 32,48-52 e Dt 34,1-7: il primo testo annuncia le modalità della morte di Mosè; il secondo riferisce il realizzarsi degli eventi annunciati.

 48In quello stesso giorno il Signore disse a Mosè: 49“Sali su questo monte degli Abarìm, sul monte Nebo, che è nella terra di Moab, di fronte a Gerico, e contempla la terra di Canaan, che io do in possesso agli Israeliti. 50Muori sul monte sul quale stai per salire e riunisciti ai tuoi antenati, come Aronne tuo fratello è morto sul monte Or ed è stato riunito ai suoi antenati, 51perché siete stati infedeli verso di me in mezzo agli Israeliti alle acque di Merìba di Kades, nel deserto di Sin, e non avete manifestato la mia santità in mezzo agli Israeliti. 52Tu vedrai la terra davanti a te, ma là, nella terra che io sto per dare agli Israeliti, tu non entrerai!”  (Dt 32,48-52).

 1Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, 2tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giuda fino al mare occidentale 3e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. 4Il Signore gli disse: “Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: «Io la darò alla tua discendenza». Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!”.

5Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nella terra di Moab, secondo l’ordine del Signore. 6Fu sepolto nella valle, nella terra di Moab, di fronte a Bet-Peor. Nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba. 7Mosè aveva centoventi anni quando morì. Gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno (Dt 34,1-7).

 Riguardo a questa testimonianza facciamo alcune sottolineature. Anzitutto, notiamo che Mosè muore in un contesto di solitudine. Non muore in mezzo al popolo, nella sua tenda. Muore, invece, in terra straniera e lontano dal suo popolo, da quel popolo per il quale ha dato interamente se stesso. Dunque, al termine della sua vita – una vita interamente consumata  nel servizio del suo popolo – gli viene chiesto di morire appartandosi dai suoi.

In secondo luogo notiamo che la sua morte avviene nel segno dell’obbedienza: Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore (Dt 34,5). Il Card. Martini nel suo commento afferma in modo lapidario: “Il Signore ha ordinato e lui è morto” e non manca di far notare che in tutta la Bibbia non si trova un fatto simile (Vita di Mosè, p. 112).

In terzo luogo, constatiamo che la morte di Mosè è segnata non solo dalla sofferenza fisica e psicologica propria del trapasso da questa vita, ma anche dalla sofferenza morale di doversi ritirare proprio quando la sua missione sta per giungere al suo coronamento, cioè all’entrata nella terra promessa. Quella terra che è stata la meta per la quale non ha esitato a dare una svolta alla sua vita egli può contemplarla solo da lontano: “Tu non entrerai” (Dt 32,52); “Tu non vi entrerai” (Dt 34,4).

Don Luigi Pedrini

14 Agosto 2016

Carissimi Parrocchiani,

disponendoci a percorre l’ultimo tratto del sentiero di Mosè, consideriamo ora la conclusione della sua vicenda.

Al riguardo, ci mettiamo in ascolto dei testi che riferiscono circa la sua morte. Sono tre e, precisamente:  Dt 31,1-8; Dt 34,1-7; Dt 34,1-7.

C’è da notare che la Scrittura dedica in modo insolito uno spazio notevole alla descrizione di questa morte: è una cosa abbastanza singolare che non trova riscontro negli altri profeti. Ad esempio, del grande profeta Isaia non sappiamo niente; ugualmente di Geremia. Molto, invece, sappiamo della morte di Mosè.

Passiamo allora in rassegna i tre testi menzionati. Così si legge nel primo testo:

 1Mosè andò e rivolse queste parole a tutto Israele. 2Disse loro: “Io oggi ho centovent’anni. Non posso più andare e venire. Il Signore inoltre mi ha detto: «Tu non attraverserai questo Giordano». 3Il Signore, tuo Dio, lo attraverserà davanti a te, distruggerà davanti a te quelle nazioni, in modo che tu possa prenderne possesso. Quanto a Giosuè, egli lo attraverserà davanti a te, come il Signore ha detto. 4Il Signore tratterà quelle nazioni come ha trattato Sicon e Og, re degli Amorrei, e come ha trattato la loro terra, che egli ha distrutto. 5Il Signore le metterà in vostro potere e voi le tratterete secondo tutti gli ordini che vi ho dato. 6Siate forti, fatevi animo, non temete e non vi spaventate di loro, perché il Signore, tuo Dio, cammina con te; non ti lascerà e non ti abbandonerà”.

7Poi Mosè chiamò Giosuè e gli disse alla presenza di tutto Israele: “Sii forte e fatti animo, perché tu condurrai questo popolo nella terra che il Signore giurò ai loro padri di darvi: tu gliene darai il possesso. 8Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo!” (Dt 31,1-8)

 

            In questo testo colpisce la risolutezza con cui Mosè afferma il primato dell’agire di Dio e invita gli israeliti a fargli completamente spazio: “Il Signore tuo Dio passerà davanti a te… cammina davanti a te”. Questo fare spazio al Signore non è in alternativa a Giosuè: essendo prescelto quale successore di Mosè, c’è posto anche per lui nello spazio che spetta anzitutto al Signore.

Notiamo pure che Mosè concludendo la sua missione di guida in mezzo agli israeliti non dà risalto a quello che ha fatto, come pure non fa alcun accenno sul fatto che, tirandosi lui da parte, sorgeranno inevitabilmente delle difficoltà. Piuttosto incoraggia gli israeliti dicendo in sostanza: “Non ci sarò più io, perché ormai ho esaurito il compito che mi era stato affidato, ma voi andrete avanti bene anche senza di me: avrete l’aiuto del Signore; avrete la guida di Giosué che è un uomo forte, buono e generoso: abbiate, dunque, fiducia”.

Queste parole rivelano che Mosè alla fine della sua vita è un uomo profondamente libero, capace di rinunciare ai legittimi riconoscimenti e di prepararsi, dopo il tempo dell’attività, al tempo della passività che gli chiede di farsi da parte e di entrare nell’ombra.

 Don Luigi Pedrini

31 Luglio 2016

Carissimi Parrocchiani,

            prima che inizi il mese di agosto che è sempre segnato da una certa dispersione – la sospensione degli impegni di lavoro diventa giustamente l’occasione per concedersi qualche occasione di stacco dal ritmo abituale – approfitto del nostro foglio settimanale per mettervi al corrente di alcune cose: due molto concrete e immediate e due invece importanti. E di questo abbinamento non dobbiamo meravigliarci: così è la vita di parrocchia. Come la vita di famiglia spazia tra cose ‘alte’ e altre ‘terra-terra’, la stessa cosa è nella famiglia più grande della Parrocchia.

            Parto dunque da quelle più immediate: come già ricordato nei primi tre sabati di agosto la santa Messa prefestiva viene sospesa e sostituita con la celebrazione del mattino alle ore 8.30: nei sabati 6 e 13 agosto si farà la celebrazione della Parola; sabato 20 agosto la celebrazione eucaristica.

            In secondo luogo, ringrazio quanti hanno già corrisposto all’invito di portare materiale utile per la pesca di beneficenza. Rinnovo l’invito a quanti posseggono oggetti idonei a consegnarli in parrocchia oppure alla Sig.ra Sandra Carena (Via Nobili 38/40).

            Ora le due cose più importanti. All’asilo stanno procedendo i lavori per predisporre un luogo di solidarietà: concretamente si sta provvedendo all’allestimento di un bagno e al riscaldamento autonomo. La casa sarà certamente pronta per il mese di settembre. Vorrei in occasione della Sagra procedere alla sua inaugurazione. Prima di allora, all’inizio del mese di settembre riunirò i membri del gruppo Caritas Parrocchiale e in accordo con il responsabile della Caritas Diocesana, don Dario Crotti, vedremo come venire incontro alla richiesta avanzata dalla Caritas Diocesana: quella di accogliere per un periodo di tempo circoscritto due immigrati che già sono ospiti presso la Casa del Giovane da due anni; hanno già superato la fase dell’inserimento fino ad aver raggiunto dal punto di vista lavorativo una loro relativa autonomia. La permanenza qui nella nostra comunità dovrebbe essere l’ultimo passaggio che consente loro di trovare una sistemazione autonoma.

            La seconda cosa importante: da domenica 18 settembre fino a domenica 25 settembre ospiteremo nella nostra parrocchia la Madonna Pellegrina di Fatima. È la statua che viene direttamente da Fatima e che il Santuario ha messo a disposizione per le Diocesi e le parrocchie italiane per quest’ultima parte dell’anno e per l’anno 2017, anno in cui ricorre il centenario delle apparizioni avvenute a Fatima. La statua giunge a noi da un lungo viaggio: fino al giorno prima sarà a Roma: da P.zza Venezia lascerà la città eterna. Nella ricorrenza del centenario – il tredici maggio del prossimo anno – sarà invece in Duomo a Milano per la devozione di tutti i fedeli della città. Abbiamo dunque un grande privilegio. Ho incontrato venerdì di questa settimana don Vittorio De Paoli, Assistente Spirituale Nazionale dell’Apostolato Mondiale di Fatima e con lui sto concordando il programma dei giorni in cui sarà tra noi. Sarà certamente un dono di grazia per la nostra comunità e non solo per noi. Quanto prima vi metterò al corrente in modo dettagliato degli appuntamenti che segneranno quella settimana.

            Affidiamo questi ultimi due progetti al Signore e nello stesso tempo cominciamo a custodirli nel nostro cuore: questa custodia contribuirà a tenere desta in noi l’aspettativa e ad alimentare il desiderio che tutto vada a buon fine. È questo il terreno migliore dove la buona semente del bene può germogliare e portare frutto.

Don Luigi Pedrini

17 Luglio 2016

Carissimi Parrocchiani,

concludo le riflessioni sulle prove di Mosè con questo commento offerto da san Gregorio di Nissa nella sua Vita di Mosè (cfr. nn. 147-148). Egli, considerando alla sua morte gli è succeduto un giovane condottiero il cui nome era Giosuè – nome che rimanda direttamente a Gesù – legge in tutto questo una prefigurazione del passaggio tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento, tra la Vecchia Alleanza che faceva leva sulla legge promulgata da Mosè e la Nuova Alleanza che fa leva sul Vangelo, la nuova legge donataci da Gesù.

Egli reputa che al tempo di Mosè il popolo di Dio era ancora segnato dalla fragilità: debole e malridotto a motivo della tirannia che aveva subito in Egitto non era in grado con le sue forze di affrontare i nemici e di liberarsi dal loro giogo. Per questo ha avuto bisogno sia di un condottiero come Mosè, sia del conforto della legge che gli indicava la strada da seguire. Tuttavia, osserva san Gregorio di Nissa:

allorché si è liberato dalla servitù di quelli che l’opprimevano, ha provato la dolcezza grazie al legno, si è riposato dalla fatica nella tappa delle palme, ha conosciuto il mistero della roccia e ha avuto parte del cibo celeste, allora non respinge più il nemico per mano di altri, ma, come ormai uscito dall’infanzia e giunto alla pienezza della gioventù, egli da sé attacca battaglia con i nemici, servendosi come comandante non più di Mosé, il servitore di Dio, ma dello stesso Dio, di cui Mosè era servitore.

Dunque, secondo san Gregorio di Nissa, una volta fatto tutto il cammino di liberazione, gli israeliti non avevano più bisogno di un condottiero come Mosè. Nelle prove il popolo di Israele è stato aiutato da Mosè a conoscere Dio e ad appoggiarsi a Lui; ora, in forza della fede che ha maturato, è in grado di affrontare anche senza Mosè le battaglie della vita.

Pertanto, il passaggio da Mosè a Giosuè sta a significare il salto di qualità che la fede di Israele ha fatto: prima aveva bisogno di un condottiero umano della statura di Mosè; ora, è disposto a lasciarsi condurre da Giosué, perché in realtà la sua vera guida è Dio stesso.

Per noi questo passaggio da Mosè a Giosué è già avvenuto grazie a Gesù: egli da una parte è il nuovo Mosè che con le sue prove si è fatto carico delle nostre debolezze e dall’altra è il nuovo Giosué che mediante il dono del Vangelo ci conduce a una fede adulta grazie alla quale siamo in grado di riporre interamente in Dio la nostra fiducia e di affrontare le vere battaglie della vita.

Infatti, San Gregorio di Nissa aveva introdotto la sua considerazione con questo paragone: Come quando, durante l’arruolamento, prima il comandante dà la paga e poi senz’altro dà il segnale della guerra, così anche i soldati della virtù, dopo aver ricevuto la mistica paga, muovono senz’altro guerra agli stranieri, avendo come comandante per la battaglia Giosué, il successore di Mosé. Con queste parole il santo vuole dire che noi cristiani, in quanto discepoli di Gesù (soldati della virtù), salvati in modo gratuito da Lui, nuovo Mosè, con la sua passione e morte (mistica paga) e guidati da Lui, nuovo Giosuè, abbiamo una fede matura e, appoggiati a Lui, siamo ormai pronti ad affrontare gli stranieri, cioè ogni imprevisto e vicissitudine della vita.

Don Luigi Pedrini

10 Luglio 2016

Carissimi Parrocchiani,

ci avviamo a concludere queste considerazioni sulle sofferenze apostoliche di Mosè mettendole a confronto con quelle di Gesù e coglierne le somiglianze e insieme le differenze.

Anche Gesù ha vissuto come Mosè l’esperienza della paura. È accaduto durante la sua passione, nell’Orto degli ulivi: nelle parole che pronuncia nella sua preghiera dichiara di avere nel cuore una grande tristezza. L’evangelista, da parte sua, annota che Gesù pregava in preda all’angoscia. Questo primo rilievo viene a ricordarci che nel servizio al Vangelo nessuno di noi è al riparo da situazioni dolorose che possono anche incutere paura.

Mosè è stato provato, poi, nella pazienza. Troviamo questa prova anche nella vita di Gesù. Al riguardo Egli ci ha lasciato, specialmente nella sua Passione, un esempio mirabile di sopportazione paziente e discreta. Ce lo descrive bene san Pietro nella sua Prima Lettera quando scrive:

Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia. Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti (1 Pt 2,21-25).

             Infine, anche Gesù è stato tentato come Mosè sul piano della fede. Nel suo ministero si è presentata non di rado la tentazione di Massa e Meriba, cioè la prova del dover affrontare situazioni che si presentavano umanamente senza via d’uscita. Pensiamo a situazioni limite in cui si è trovato e che sembravano irrimediabilmente compromesse come ad esempio la situazione di disagio che si è creata durante le nozze di Cana a motivo del venir meno del vino; così pure alla preoccupante penuria di cibo in cui viene a trovarsi la folla nel deserto e che fa da preludio alla prodigiosa moltiplicazione dei pani; pensiamo, inoltre, all’opposizione degli abitanti di Nazaret che vorrebbero mettere le mani su di lui e farlo morire oppure al grande senso di abbandono e di solitudine che Gesù ha sperimentato nei giorni che precedono la sua passione e morte.

In tutte queste situazioni noi non troviamo mai in Gesù un benché minimo tentennamento nella fede. A differenza di Mosè che nell’episodio di Massa e Meriba non è riuscito, come in altre occasioni a giocarsi interamente e a rimettersi pienamente nelle mani di Dio, Gesù dimostra prontezza sia nel consegnare se stesso “Il Figlio dell’uomo è venuto per dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10.45), sia nell’affidarsi totalmente nelle mani del Padre: “Padre non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22,42).

 Don Luigi Pedrini

3 Luglio 2016

Carissimi Parrocchiani,

l’ultima volta ho fornito una prima spiegazione del rimprovero di poca fede che Dio gli ha fatto in occasione di quanto accaduto a Massa e Meriba.

Ora voglio ricordare una seconda interpretazione che si fa leva su alcuni testi che si trovano nel libro del Deuteronomio (cfr. 1,37; 3,26; 4,21)

Essi ravvisano una mancanza di fede nel fatto che Mosè una volta attraversato il Mar Rosso abbia consentito agli israeliti di intraprendere la via più lunga per entrare nella Terra promessa. Se avesse scelto di entrare da sud, sarebbero andati incontro a un tragitto più breve che li avrebbe condotti in tempi rapidi al confronto con gli abitanti del luogo.

Mosè, invece, ha preferito la strada dell’est, strada più lunga che gli ha consentito un avvicinamento più graduale alla terra promessa e anche un tempo più lungo per preparare gli israeliti a un non facile insediamento nella Terra promessa. Ha optato, dunque, per la scelta meno rischiosa, quella che meno esponeva gli israeliti al pericolo dello scoraggiamento e maggiormente li aiutava a maturare una maggior fiducia nella proprie forze.

Ma proprio in questo si può vedere una mancanza di fiducia nel Signore: Egli, per liberarli dal faraone, non ha fatto ricorso a cavalli e cavalieri, ma gli è bastato ‘snudare’ il suo santo braccio per ridurre all’impotenza il faraone  e il suo esercito,

Astenendoci dal prendere posizione in favore dell’una o dell’altra interpretazione, sta di fatto che la poca fede testimoniata in questa circostanza, adombrata ulteriormente anche dalle parole insipienti che gli sono uscite in quel momento in cui la sua pazienza veniva messa alla prova, gli è costata l’umiliazione di vedersi preclusa la possibilità di entrare con il suo popolo nella Terra promessa. Egli la vedrà, ma solo da lontano (cfr. Nm 20,1-13.22-29); 33,38-39; Dt 3,23-28; 4,21-22).

Mosè da parte sua saprà accettare tutto questo con molta dignità, umiltà, semplicità di cuore.

Questa “caduta” di fede da parte di Mosè è significativa anche per noi: viene a ricordarci che ogni cammino di fede, per quanto luminoso, può sempre conoscere un oscuramento improvviso, un momento difficile che può determinare anche una caduta. Accade così che quel carico di responsabilità che si è portato bene anche per anni a un certo punto assume i contorni di un peso insopportabile e, alla fine, si cede.

Naturalmente qui stiamo parlando di una sofferenza che è tipica dell’apostolato: infatti, ll’aver accettato di servire il Signore ci fa meritevole non di una promessa di indefettibilità, ma di una promessa di fedeltà e di perdono.

Può accadere pertanto anche a noi come a Mosè di sbagliare, forse per troppa compassione, forse per un coinvolgimento eccessivo con la gente che rischia di mettere in ombra il primato della Parola di Dio nella nostra vita, E tuttavia, come Mosè sappiamo di poter sempre contare al di là di tutto sulla fedeltà e la misericordia del Signore.

 don Luigi Pedrini