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11 NOVEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

considerando ora il testo della cosiddetta ‘promessa davidica’ noi andiamo al cuore della vicenda di Davide: Dio gli promette che gli farà una casa. Naturalmente l’affermazione va preso in tutta l’ampiezza del suo significato: qui ‘casa’ significa ‘discendenza’, ‘regno’. Dunque, Dio si fa garante per Davide di un futuro imperituro. Questo spiega come mai Davide diventerà d’ora in avanti un riferimento costante nella Scrittura.

Il contesto nel quale si colloca la promessa è costituito da una situazione di pace che Davide ha conseguito dopo aver riportato vittoria sui nemici e aver messo al sicuro i confini del regno. In questa situazione di stabilità matura il progetto di costruire in Gerusalemme un tempio, cioè un edificio consono ad accogliere l’arca dell’alleanza e a diventare in Israele il simbolo della presenza di Jahwé in mezzo al suo popolo.

Di questo proposito Davide informa il profeta Natan: “Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda” e ne dà anche la motivazione: non è giusto che Lui viva in una reggia, mentre l’arca di Dio abbia come dimora una semplice tenda.

L’intenzione di Davide è lodevole e mossa da una sincera riconoscenza. È vero però che, non di rado, in queste iniziative può insinuarsi anche un elemento di ambiguità capace di inquinare la bontà dell’intenzione. Rossi de Gasperis ricorda che “è un comportamento tipico di uomini religiosi, una volta che abbiano acquistato potere e denaro, immaginare di ‘fare gradi opere per il Signore’. Ma non è mai così sicuro che, nei donatori, l’intento di erigere monumenti al Signore, non nasconda quello di erigere monumenti a sé stessi” (Prendi il libro, p. 139).

In ogni caso, dopo l’approvazione forse un po’ affrettata da parte del profeta Natan, Dio parla al profeta e lo invita a farsi intermediario presso il re per correggere il suo progetto: Quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: 5“Va’ e di’ al mio servo Davide: Così dice il Signore: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? 6Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. 7Durante tutto il tempo in cui ho camminato insieme con tutti gli Israeliti, ho forse mai detto ad alcuno dei giudici d’Israele, a cui avevo comandato di pascere il mio popolo Israele: Perché non mi avete edificato una casa di cedro?”.

Dunque, Dio prende le distanze da questo progetto. Fa presente che anche dopo la conquista della terra da parte di Israele, egli è sempre rimasto un Dio nomade. Da queste parole si ricava quasi l’impressione che non gli sia dispiaciuto di aver abitato fino ad ora sotto una tenda. Ma poi Dio ricorda a Davide la storia di grazia che lo ha generato, quella storia che costituisce il ‘principio e fondamento’ del suo cammino di fede.

Sono parole molto belle, nelle quali Davide da una parte si vede rileggere da Dio stesso tutta la sua storia, dall’altra vede aprirsi davanti a sé un futuro di speranza che supera ogni sua aspettativa: Così dice il Signore degli eserciti: “Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. 9Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. 10Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato 11e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa”.

Le ultime parole “Il Signore ti annuncia che farà a te una casa” (v. 11) contengono una rivelazione espressa nella forma di un oracolo solenne. L’importanza di questa rivelazione non è passata inosservata. Infatti, questa promessa sarà ripresa e rilanciata in molti testi successivi della Scrittura: la ritroviamo nel libro di Isaia, di Geremia, di Amos, di Zaccaria e nei Salmi.

                                                                                                                  Don Luigi Pedrini

04 NOVEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

prendiamo ora in considerazione la promessa che Dio ha fatto a Davide di costruirgli una casa stabile per sempre. Come già ricordavo, questa promessa diventerà il fondamento dell’attesa da parte di Israele della venuta del Messia.

È una promessa che travalica i secoli, continuamente rilanciata dai profeti e che ritroviamo anche nei Vangeli. Pensiamo soltanto al testo dell’Annunciazione nel quale I ‘angelo Gabriele annuncia a Maria la nascita di Gesù e dichiara che “sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (Lc 1,32-33).

Per meglio comprendere i contenuti della promessa fatta a Davide è utile richiamare il contesto storico in cui si colloca.

Gli anni del Regno di Davide sono segnati da tante imprese che hanno avuto esiti positivi. Tra queste l’impresa forse più felice stata la conquista di Gerusalemme. Questa città si trovava al di fuori dei territori occupati dalle dodici tribù di Israele e apparteneva alla popolazione dei Gebusei. Fin dal tempo di Giosuè era risultata una cittadella imprendibile. Davide con le sue truppe comandate da Ioab riesce a espugnarla assicurandosi in questo modo una sua personale città: da questo momento comincia ad essere chiamata la “Città di Davide”. Gerusalemme è una città di montagna e aveva la prerogativa di trovarsi in un territorio neutro rispetto alle altre città che si trovavano nei territori abitati dalle dodici tribù di Israele: questa sua neutralità le ha permesso di essere riconosciuta come la capitale di tutto Israele. In Gerusalemme Davide fa costruire il suo palazzo reale.

Un’altra impresa importante da parte di Davide è stata la riuscita sottomissione di tutti i nemici storici di Israele: i Filistei, che erano quelli più pericolosi (2 Sam 8, l; 21, 15-22); i Moabiti (2 Sam 8,2.12); gli Aramei (2 Sam 8,3-12); gli Ammoniti, gli Amaleciti e gli Idumei (2Sam 8,12-14; IO, 1-11,1; 12,26-31). In questo modo ha consolidato il Regno e ha cominciato a dargli una prima organizzazione civile, militare e anche religiosa.

Bisogna tenere presente che il regno di Davide, come già quello di Saul, si inserisce nel delicato passaggio dall’era carismatica dei Giudici a quella istituzionale della monarchia. Il popolo di Israele riconoscendo la monarchia si sta dando un assetto assolutamente nuovo dal punto di vista politico, sociale e religioso.

E in questo contesto che Davide matura il proposito di costruire il tempio, una casa per il Signore destinata ad ospitare l’arca dell’alleanza, cioè le tavole della legge che Dio aveva dato a Mosè sul monte Sinai.

I passi con cui l’arca viene portata a Gerusalemme – prima facendo sosta casa di Aminadab, poi nella casa di Obed-Edom di Gat e, infine, dopo tre mesi, nello stesso palazzo reale in Gerusalemme – si inseriscono in questo progetto lungimirante di Davide. La sua intenzione è quella di creare un legame di continuità tra la lunga storia di liberazione che gli Israeliti hanno vissuto uscendo dall’Egitto e soggiornando per quarant’anni nel deserto e la nuova storia che li vede abitare stabilmente nella terra del Giordano sotto la guida di un re che accolgono come consacrato da Dio.

Ora resta da vedere da vicino il testo relativo alla “promessa davidica”. Lo faremo la prossima settimana.

Don Luigi Pedrini

28 OTTOBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

abbiamo concluso questo primo resoconto sulla vicenda di Davide esponendo i fatti che lo hanno condotto da giovane pastore di Betlemme alla sua elevazione a re di Israele.

Ora poniamo attenzione agli avvenimenti più significativi che hanno segnato la sua vita dal momento in cui ha cominciato a regnare.

La storia dei quarant’anni del suo regno si suddivide in due periodi: i sette anni in cui regna su Giuda, in Ebron (cfr 2 Sam 2,1-4,12; 1 Cr 11,1-2); i trentatré anni in cui regna su tutto Israele e Giuda (cfr 2 Sam 5,1-1 Re 2,11; Cr 11,3-29,30).

Di questi quarant’anni di regno noi possediamo un resoconto interessante scritto in un tempo molto vicino agli avvenimenti che vengono raccontati: la composizione di questi testi si può collocare forse nella prima metà del Regno di Salomone. È “una storia tra le più interessanti della letteratura antica, scritta in una lingua bella, ricca di testimonianze oculari, che la redazione deuteronomista ha conservato fresca, quasi senza ritocchi” (F. Rossi de Gasperis – A. Carfagna, Prendi il libro e mangia, p. 131).

È la storia di un re che vive avendo messo Dio al centro della sua vita, un re secondo il cuore di Dio. Nello stesso tempo, quella di Davide non è tuttavia la vita di un santo. La sua personalità è certamente ricca, ma non senza difetti e la Scrittura non li nasconde.

Secondo il Card. Martini i cicli di Giuseppe e di Davide sono i più belli della Scrittura. Tra i due cicli ci sono però alcune differenze. Quella di Giuseppe appartiene al genere sapienziale e, pertanto, il racconto della vicenda del patriarca ha il carattere della composizione agiografica: Giuseppe è presentato come figura esemplare, modello di perfezione morale; Invece, il racconto della vicenda di Davide appartiene al genere storico: qui la fedeltà all’accaduto è molto alta. Il racconto presenta la storia così com’è, senza nascondere gli sbagli di Davide: la sua figura non appare come un modello di santità e di perfezione morale.

E, tuttavia, “i peccati di Davide, quantunque gravi, sono i peccati di un uomo che rimane, soprattutto e nonostante tutto, un «amico di Dio»” (Prendi il libro, p. 132) Siamo di fronte davvero alla vicenda di un uomo “credente e peccatore”, secondo la bella definizione con cui il Card. Martini intitola il suo libro di meditazioni su Davide.

Ci soffermiamo su questo periodo della vita di Davide con tre riflessioni: nella prima consideriamo la promessa che Dio fa a Davide di costruirgli una casa che sia stabile per sempre. È la famosa promessa ‘davidica’ che costituisce il fondamento più solido della speranza messianica di Israele, cioè della fiducia nella venuta di un nuovo re, il Messia, discendente della famiglia di Davide, che avrebbe dato compimento alla promessa fatta a suo tempo ad Abramo (cfr. La vicenda di Davide, profezia del Messia regale); nella seconda consideriamo la dimensione del peccato che segna la sua storia e ne fa una storia fragile (cfr. La vicenda di Davide, profezia nella fragilità); nella terza ci soffermeremo sulla rivolta del figlio Assalonne che mettendosi contro il padre trascina Israele nel dramma di una guerra civile procurando a Davide l’immensa sofferenza di vedersi rifiutato e combattuto da un figlio. Questa dolorosa vicenda raggiunge vertici tali di umiliazione e di passione da anticipare in modo profetico la stessa passione di Gesù (cfr. La passione di Davide profezia  della  Pasqua di   Gesù).

                                                                                                                 Don Luigi Pedrini

21 OTTOBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

continuiamo il commento al Salmo 63. Dopo avere considerato la prima parte (vv. 2-4) nella quale Davide in un contesto di solitudine e di abbandono, confessa il suo desiderio, la sua ‘sete’ di Dio, ora consideriamo la seconda parte (vv. 5-9) nella quale egli pregusta nella speranza l’esaudimento del suo desiderio. Si parla, infatti, di una fame pienamente saziata: Come saziato dai cibi migliori (v. 6).

Questa sazietà nasce dalla speranza che Dio riempirà la sua solitudine con il dono della sua presenza fedele e apre il cuore di Davide a una lode che sgorga spontanea proprio al pensiero di ciò che Dio farà in suo favore: Ti benedirò per tutta la vita, nel tuo nome alzerò le mie mani, […] con labbra gioiose ti loderà la mia bocca (vv. 5-6).

Non solo la speranza per il futuro che è nelle mani di Dio dà voce alla lode del cuore, ma anche il ricordo per il bene che in passato ha ricevuto da Lui diventa motivo per rendere grazie. Un ricordo che affiora spontaneo specialmente nelle veglie della notte: Quando nel mio letto di te mi ricordo / e penso a te nelle veglie notturne / a te che sei stato il mio aiuto / esulto di gioia all’ombra delle tue ali (vv. 7-8)

Questo particolare del ricordo nella notte è significativo. Sta a dire che quando un credente è interamente affidato a Dio e Dio è diventato tutto il suo bene, allora il ricordo di Dio sovviene anche nelle veglie della notte. In effetti, la notte, con le sue veglie, come attesta bene anche la tradizione cristiana, è il tempo più favorevole per pensare a Colui che da sempre ci ama. I Vangeli riferiscono che anche Gesù amava raccogliersi in preghiera durante la notte.

Il fare memoria di quelle esperienze nelle quali si è toccata con mano la presenza consolante di Dio diventa motivo di esultanza e di pacificazione interiore: Esulto di gioia all’ombra delle tue ali (v. 8). È molto espressiva questa immagine delle ali che proteggono ed esprime bene la consolazione di chi si sente pienamente avvolto della presenza amorevole di Dio.

Davanti a questa presenza Davide dichiara il suo atto di consegna (A te si stringe l’anima mia, v. 9a) e la sua fiducia nella piena affidabilità di Dio (La tua destra mi sostiene, v. 9b).

Nella terza parte del salmo (vv. 10-12), Davide confessa la speranza che Dio abbia a riportare vittoria su tutto ciò che vorrebbe rubargli la speranza e intristire la sua vita – così si può interpretare l’espressione: Quelli che cercano di rovinarmi sprofondino sotto terra (v. 10) – e che questa vittoria Dio la realizzi mediante la forza efficace della sua parola, che come spada a doppio taglio è capace di penetrare anche nella profondità del cuore umano. Così possiamo intendere le parole: Siano consegnati in mano alla spada (v. 11).

Le parole conclusive del salmo: Il re (cioè l’Unto, colui che è consacrato) troverà in Dio la sua gioia, si glorierà chi giura per lui, perché ai mentitori verrà chiusa la bocca (v. 12) possiamo riferirle a ciascuno di noi. Avendo noi ricevuto il battesimo, essendo persone consacrate a Dio, possiamo gioire in Lui e anche gloriarci, cioè rivestirci di gloria, risplendere di luce dal momento che i mentitori sono vinti e più nulla quindi di menzognero e di falsificante può avere il sopravvento su di noi.

Don Luigi Pedrini

14 OTTOBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

concludevo la scorsa settimana constatando che l’esperienza di Dio sta davvero al cuore dell’esistenza di Davide, è il segreto della sua vita. Le preghiere che Davide ha composto sono come finestre attraverso le quali questa esperienza segreta viene in certa misura alla luce e ci consentono di entrare in quella cella segreta interiore nella quale la persona che prega vive l’incontro con Dio.

In questo orizzonte vogliamo allora considerare da vicino tra i salmi scritti da Davide uno dei più conosciuti: il salmo 63. Secondo la tradizione biblica questa preghiera è stata composta da lui in quel periodo di tribolazione e di vita alla macchia quando era perseguitato da Saul (cfr. 1 Sam 22-24).

In questa situazione di esilio forzato e di solitudine Davide confessa la sua sete di Dio contemplato come l’unico che può ricondurlo alla libertà e restituirgli la pace e la sicurezza di un tempo. Il salmo è dunque animato dal desiderio di un pieno affidamento nelle mani di Dio.

Dal punto di vista della struttura, questa preghiera si divide in tre parti. Nella prima parte (vv. 2-4) Davide confessa la sua sete di Dio: una sete ardente paragonabile a quella della terra arida del deserto; nella seconda parte (vv 5-9) esprime la speranza di rivivere l’incontro con il Signore: un incontro di cui già pregusta la gioia e che descrive con i caratteri della convivialità, dell’intimità, della consolazione; nella terza parte (vv. 10-12) dichiara la sua certezza che Dio gli farà riportare vittoria sui nemici ossia su tutto ciò che vuole opprimere e intristire la sua vita. Ci soffermiamo per ora sulla prima parte, rimandando il commento alla seconda e alla terza alla prossima settimana.

Il salmo si apre con un’esclamazione, o meglio con un grido: “O Dio, tu sei il mio Dio” (v 2a). È il grido che sgorga spontaneo e fiducioso dal cuore di un uomo che si trova nella più grande solitudine e che si rivolge a Dio dicendogli: “Tu sei il mio Dio”. Sono parole che riconoscono un’appartenenza intima che nulla può incrinare. Si potrebbero tradurre così: “Signore, Tu sei tutto per me e io non ho altro al di fuori di Te, Tu sei l’unica ragione della mia vita, la mia unica e vera gioia”. Siamo di fronte a una vera professione di fede: si afferma il valore assoluto di Dio e insieme il bisogno assoluto che l’uomo ha di Lui.

I versetti che seguono sono conseguenti questa affermazione iniziale: “All’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a Te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua” (v 2b). Qui Davide sta dando voce al desiderio che porta nel cuore, un desiderio che lo spinge ogni giorno a cercare Dio dalla prima ora dell’alba. È un desiderio che coinvolge in tutto il suo essere di anima e corpo: tutta la sua persona desidera abbeverarsi del Signore riconosciuto come pura sorgente di vita. Sta in attesa davanti a Dio così come la terra riarsa, assetata, aspetta la pioggia e la rugiada.

Così nel santuario ti ho cercato” (v 3a). A quale santuario Davide si riferisce? Il nostro primo pensiero va al tempio di Gerusalemme e certamente a questo luogo di preghiera avranno pensato tutti i credenti di Israele venuti dopo Davide pregando con queste parole. Davide, tuttavia, non poteva riferirsi al tempio di Gerusalemme che ancora non era stato costruito. Qui l’allusione va invece a quel sacrario interiore che il cuore dell’uomo vero santuario nel quale è dato a ciascuno di vivere l’incontro con il Signore.

Ti ho cercato”: è tipica del povero l’umiltà di non cercare in se stesso, ma al di là di se stesso. L’incontro con Dio può essere vissuto solo in termini di dono: è la scoperta gioiosa e stupita di essere da Lui visitati nel santuario del cuore. Quando l’uomo si mette in ricerca di Dio con questo spirito di umiltà, allora è nella giusta disposizione di poter contemplare – come dice il salmo – “la tua potenza e la tua gloria” (v 3b).

Questa prima parte si conclude con un riconoscente atto di fede: “La tua grazia vale più della vita”, che potremmo esprimere cosi: “L’essere con Te, Signore, che sei tutto il mio bene è la cosa più preziosa che per nulla al mondo vorrei perdere”; e poi con una promessa di lode: “Le mie labbra diranno la tua lode”.

Don Luigi Pedrini

07 OTTOBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

 per completare la descrizione di Davide come uomo virtuoso, dopo aver sottolineato in lui la virtù del coraggio, della lealtà, della pazienza, della libertà interiore, occorre ricordare ora la virtù della preghiera. Davide è un uomo che prega.

Molti dei centocinquanta salmi contenuti nel libro del Salterio sono stati composti da Davide. Si tratta di preghiere che egli ha rivolto a Dio dando voce ai sentimenti, ai desideri, alle domande che affioravano in lui nelle diverse circostanze della vita. Pertanto, queste preghiere assumono fisionomie diverse che vanno dall’affidamento alla lode, dalla supplica al ringraziamento.

Così dopo il duello vittorioso con Golia Davide innalza a Dio il suo ringraziamento e la sua lode e prega: Benedetto il Signore mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia”.

Nella situazione di solitudine e di abbandono che si determina in seguito alla persecuzione di Saul e alla necessità di cercare rifugio nel deserto Davide ritrova fiducia pensando a Dio come l’Altissimo, il Signore che ha creato i cieli e la terra e che, tuttavia, si china sull’uomo e si prende cura di lui dandogli una dignità che lo eleva al di sopra di ogni creatura. Mentre nella notte contempla la volta stellata del cielo esclama: O Signore, Signore nostro, / quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra! […] Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, / la luna e le stelle che tu hai fissato, / che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? / Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, / di gloria e di onore lo hai coronato (Sal 8)

Nei momenti più drammatici, quando si sente come braccato da ogni parte e ha l’impressione che sia preclusa ogni via di scampo e di liberazione, la preghiera che innalza assume i contorni della supplica e dell’implorazione: Pietà di me, o Dio, perché un uomo mi perseguita, / un aggressore tutto il giorno mi opprime. / Tutto il giorno mi perseguitano i miei nemici, / numerosi sono quelli che dall’alto mi combattono. / Nell’ora della paura / io in te confido. / In Dio, di cui lodo la parola, / in Dio confido, non avrò timore: / che cosa potrà farmi un essere di carne? (Sal 56).

Anche solo questi accenni bastano per rivelarci che Davide è un uomo che dialoga con Dio. La preghiera sgorga spontanea dal suo cuore e non ha nessun timore, nessuna reticenza nel portare alla luce attraverso le parole che rivolge a Dio i sentimenti più profondi e le domande più vere che porta dentro di sé.

Davide è, dunque, un uomo che ha familiarità con la preghiera. Nella Scrittura, già prima di lui, si incontrano persone che dialogano con Dio. Pensiamo ad Abramo, a Giacobbe, a Mosè. In nessuno però troviamo una preghiera che abbraccia un orizzonte di sentimenti e di domande così ampio così come si riscontra in Davide. Per questo – a giudizio di don Divo Barsotti – Davide è una delle figure più grandi dell’Antico Testamento e lo è per questo senso religioso. […] La grandezza dei personaggi dell’Antico Testamento è sempre e soprattutto nel loro rapporto con Dio. Sembra che questo rapporto con l’Unico sollevi questi uomini al di sopra della condizione umana. Così Abramo, così Elia, così Mosè, così anche Davide. (pp. 184-185).

Leggendo la Scrittura si ricava l’impressione che Davide non possa riferire di sé e delle situazioni che vive senza chiamare in causa il suo rapporto personale con Dio. E questo è significativo: vuol dire che la sua esperienza di Dio sta davvero al cuore della sua esistenza. A ragione possiamo ritenere che proprio questo sentirsi invincibilmente legato a Dio costituisca il segreto della sua vita, il punto di unificazione che fa di lui un uomo virtuoso, un pastore secondo il cuore di Dio.

 Don Luigi Pedrini

30 SETTEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

stiamo considerando la libertà interiore di Davide e per meglio illuminarla stiamo seguendo una vicenda esemplare al riguardo: la vicenda di Nabal. Già abbiamo riferito del rifiuto opposto a Davide che gli chiedeva cibo per sé e per i suoi uomini e la conseguente decisione di Davide di vendicarsi ad ogni costo del comportamento ingrato e arrogante di Nabal.

Entra però in scena a questo punto Abigail, a moglie di Nabal. Il testo biblico la presenta come donna “assennata e di bell’aspetto”, a differenza del marito che lo descrive come uomo “rude e di brutte maniere”. Abigail si è resa conto della situazione drammatica che si è creata e che viene a mettere in serio pericolo la sussistenza della sua famiglia. Per questo decide di andare incontro a Davide per suscitare in lui da subito un atteggiamento di disponibilità e di benevolenza. A questo scopo fa pervenire a Davide, prima di incontrarlo, donativi in abbondanza: duecento pani, due otri di vino, cinque pecore già pronte, cinque sea di grano tostato, cento grappoli di uva passa e duecento schiacciate di fichi secchi (v. 19). Non solo. Il testo riferisce che giunta alla presenza di Davide, si dispone a parlargli in un atteggiamento molto umile e rispettoso: smontò in fretta dall’asino, cadde con la faccia davanti a Davide e si prostrò a terra (v. 25).

C’è da notare che noi siamo di fronte a una donna pagana, una donna che non conosce la Scrittura che, pertanto, non può essere per lei sorgente di ispirazione. Nonostante questo, il suo modo di comportarsi sta ricalcando sorprendentemente l’esempio del grande patriarca Giacobbe. Infatti, quando per lui si è trattato di incontrare dopo tanti anni il fratello Esaù dal quale si era separato con un contenzioso aperto, lo ha fatto mandando al fratello, prima della sua venuta, ingenti donativi e poi andandogli incontro con gesti e parole di profonda umiltà.

Le parole che Abigail rivolge a Davide sono piene di saggezza: diversamente dal marito esprime la sua gratitudine a Davide per i benefici ricevuti dalla sua famiglia e gli riconosce espressamente un futuro di gloria: il Signore ti concederà tutto il bene che ha detto a tuo riguardo e ti avrà costituito capo d’Israele (v.30). In questo modo riesce perfettamente nel suo intento. Davide è profondamente toccato dalle sue parole, esprime apprezzamento sulla sua iniziativa ed esclama: “Benedetto il Signore, Dio d’Israele, che ti ha mandato oggi incontro a me. Benedetto il tuo senno e benedetta tu che sei riuscita a impedirmi oggi di giungere al sangue e di farmi giustizia da me (vv. 32-33).

Dunque, Davide accoglie prontamente la richiesta di Abigail di usare comprensione verso la sua famiglia e abbandona il proposito di farsi giustizia con le sue mani: all’intenzione di vendicare l’offesa subentra un atteggiamento di misericordia.

Il racconto si conclude dicendo anzitutto che Nabal, informato dalla moglie di quanto accaduto e quindi del rischio mortale che ha corso Lui e tutta la famiglia, è rimasto talmente impressionato che non si è più riavuto ed è morto dieci giorni dopo; in secondo luogo riferisce che Abigail, in seguito alla morte del marito, va a cercare protezione da Davide che la accoglie e la prende con sé come sposa.

La vicenda mette in luce chiaramente la libertà interiore di Davide che si dimostra capace di prendere le distanze dalle decisioni prese e di riequilibrarle in rapporto alla nuova situazione che si è creata. Davide non fa delle sue decisioni una questione di puntiglio. Ha il coraggio di rivederle e l’umiltà di ritornare sui suoi passi offrendo a coloro da cui è stato offeso una possibilità di riscatto.

Teniamo presente che questa duttilità, intesa come capacità di non irrigidirsi sulle proprie decisioni, è una virtù tipica di Dio. Nessuno come Lui è puntuale nell’affermare i principi e nel denunciare il male a cui l’uomo va incontro quando non vuole attenersi ad essi; tuttavia, nessuno come Lui è duttile nell’ammorbidire le sue parole fino a “rimangiarsele” pur di far prevalere la misericordia.

Don Luigi Pedrini

23 SETTEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

stiamo considerando le virtù del giovane Davide. Già abbiamo riferito riguardo al suo coraggio, alla sua lealtà e alla sua pazienza. Ora ci soffermiamo sulla sua testimonianza di libertà interiore.

Davide anche nella situazione di prova estrema in cui viene a trovarsi in seguito alla persecuzione di Saul si dimostra un uomo profondamente libero: fermo nelle sue convinzioni, ma anche scevro da rigidità e chiusure. Davide è un uomo capace di assecondare il corso positivo degli eventi rinunciando all’occorrenza alle decisioni precedentemente prese e cambiando anche parere pur di far prevalere un atteggiamento di dialogo costruttivo e di avvicinamento delle parti.

Una testimonianza significativa di questa duttilità interiore è offerta dalla vicenda di Nabal che è narrata nel cap. 25 del Primo Libro di Samuele.

Nabal viveva stabilmente con la sua famiglia nel deserto ed era un pastore facoltoso: possedeva infatti tremila pecore e mille capre. Nei suoi confronti Davide ha sempre avuto un atteggiamento di benevolenza: ha sempre avuto rispetto per lui, la sua famiglia, la sua proprietà e in alcune occasioni è pure intervenuto con i suoi uomini per difenderlo dai predoni del deserto.

Accade che Davide, passando nei pressi dei suoi terreni nel periodo in cui Nabal, secondo l’usanza, stava facendo festa con i suoi garzoni durante la tosatura del gregge, avendo esaurito le scorte di cibo, invia da lui alcuni dei suoi uomini per chiedergli, quale sorta di ricompensa per la benevolenza che gli ha sempre usato, un approvigionamento di cibo per lui e quanti aveva al suo servizio.

Questa richiesta aveva nella prassi di allora una sua plausibilità. Davide aveva assunto nel deserto la fisionomia del ‘predone’ e viveva di espedienti alla stregua di tuffi i predoni del deserto. Nonostante questo non aveva mai usato la sua forza contro Nabal e, anzi, si era preso a cuore la sua sorte. Ora, pressato dalla necessità, rivendica il diritto ad avere un aiuto in contraccambio.

A questa richiesta però Nabal oppone una risposta sprezzante: “Chi è Davide e chi è il figlio di Iesse? Oggi sono troppi i servi che vanno via dai loro padroni.11Devo prendere il pane, l’acqua e la carne che ho preparato per i tosatori e darli a gente che non so da dove venga?” (vv. 10-11).

Con queste parole egli si dimostra un uomo ingrato, incapace di riconoscere i favori ricevuti. L’affronto era dunque molto grave e Davide sia perché pressato dalla necessità contingente, sia per una questione di puntiglio, ritiene che non vada lasciato impunito. A suo giudizio Nabal merita una punizione proporzionata all’arroganza dell’affronto che gli ha fatto.

Davide andava dicendo: “Dunque ho custodito invano tutto ciò che appartiene a costui nel deserto; niente fu sottratto di ciò che gli appartiene ed egli mi rende male per bene. 22Tanto faccia Dio a Davide e ancora peggio, se di tutti i suoi lascerò sopravvivere fino al mattino un solo maschio!” (vv. 21-25).

Così Davide con i suoi 400 uomini si mette in cammino per raggiungere Nabal e vendicare l’offesa. Entra in scena, però, a questo punto la moglie di Nabal. Ella si rende conto del pericolo che incombe sulla sua famiglia e mentre il marito, stoltamente, va avanti a banchettare e a far festa nel completo disinteresse della richiesta che gli era stata fatta, prende l’iniziativa di andare incontro a Davide.

Di questo incontro riferiremo la prossima volta.

Don Luigi Pedrini

16 SETTEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

come saprete nel prossimo ottobre il Papa Paolo VI verrà proclamato santo. Riporto qui tre testi che ho trovato molto illuminanti in riferimento al Vangelo di questa domenica 23° del tempo ordinario.

Nel primo testo Paolo VI rispondendo alla domanda: “Chi è Gesù?” scrive:

Gesù è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e ci ama; è il compagno e l’amico della nostra vita; è l’uomo del dolore e della speranza […] Come noi, e più di noi, Egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore, … Per noi, ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo è Gesù Cristo è il principio e la fine; è il segreto della storia; è la chiave dei nostri destini, è il mediatore, il ponte, fra la terra e il cielo. Egli è per antonomasia il Figlio dell’uomo, perché Egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne…

Sullo sfondo del secondo testo c’è invece la domanda: “Chi è Gesù per noi?”. La risposta che dà ruota attorno a un’affermazione ricorrente: “Tu ci sei necessario”.

O Cristo nostro unico Mediatore.

Tu ci sei necessario per venire in comunione con Dio Padre, per diventare con Te suoi figli adottivi, per essere rigenerati dallo Spirito Santo.

Tu ci sei necessario o solo vero Maestro delle verità recondite e indispensabili della vita.

Tu ci sei necessario, o Redentore nostro, per scoprire la nostra miseria morale e per guarirla

Tu ci sei necessario, o Fratello primogenito del genere umano, per ritrovare le vere ragioni della fraternità fra gli uomini.

Tu ci sei necessario, o grande Paziente dei nostri dolori, per conoscere il senso della sofferenza e per dare ad essa un valore d’espiazione e di redenzione.

Tu ci sei necessario, o vincitore della morte, per liberarci dalla disperazione e dalla negazione e per avere la certezza che non tradisce in eterno.

Tu ci sei necessario, o Cristo, per imparare l’amore vero e per camminare nella gioia e nella forza della tua carità la nostra via faticosa, fino all’incontro finale con Te amato, atteso, benedetto nei secoli.

Il terzo testo è una preghiera che si trova nei Diari giovanili scritta da Paolo VI nel 1931 quando era ancora un giovane prete di 33 anni. Esprime il desiderio di percorrere, senza riserve, la via di Cristo.

Io confido in Te / perché in nessuno posso confidare / e di me debbo diffidare.

Signore / come frenerò questo superbo desiderio di scienza / di gonfio sapere, di studio appassionato, / sì che Tu solo sia mia luce e mia intima pace?

Come imparerò l’impossibile preghiera/ preghiera immobile, fervida, / umile, generatrice d’azione?

Come imparerò l’impossibile umiltà, / umiltà vera che è il recipiente della carità, / umiltà necessaria che è la regola della via giusta, / umiltà soave senza di che l’azione è disordine / umiltà lontana da me più che le stelle del cielo?

Come imparerò a non lamentarmi mai, / ad essere caritatevole, / a stimare i miei fratelli, / ad amare gli antipatici, / a non giudicare alcuno?

Potrò io, non dico compiere l’eroismo / senza il quale non vi è santità, / ma compiere i più elementari sacrifici / con animo povero, con cuore puro, con perseveranza forte e serena?

Io vorrei tutto questo, / perché vorrei amarti.

Mio Dio, Padre, Infinitamente Padre, / lo voglio / perché confido ciecamente in Te.

Confido in Te, confido che Tu trionfi in me, Padre. Amen.

Don Luigi Pedrini

09 SETTEMBRE 2018

Carissimi Parrocchiani,

stiamo riferendo circa il comportamento virtuoso del giovane Davide. Già abbiamo ricordato le virtù del coraggio e della lealtà: ora, ci soffermiamo sulla pazienza.

Questa virtù risplende nella capacità di Davide di rispettare i tempi ‘lunghi’ di Dio. Quanto tempo passa dal momento in cui Samuele lo consacra quale successore di Saul e il momento in cui comincia a regnare. Quanti anni e quante vicissitudini!

Davide, in questa attesa, avrebbe potuto spazientirsi e cedere alle due tentazioni che affiorano puntualmente in questa circostanza: poteva mettere da parte tutto e dire che è stato un bel sogno, ma niente di più, perché gli ostacoli che si frappongono sono troppo grandi; oppure, al contrario poteva decidere a un certo punto di prendere in mano lui la situazione e di forzare in certa misura i tempi di Dio.

Sappiamo che queste sono state proprio le tentazioni di Abramo, Da una parte, ci sono episodi in cui egli lascia vedere un atteggiamento rinunciatario in ordine alla promessa di quella discendenza che deve nascere da lui: lo si vede chiaramente quando trovandosi in pericolo di vita in Egitto si dimostra disposto a cedere Sara in moglie al faraone, rinunciando a colei che solo poteva permettere alla promessa di andare a compimento. Dall’altra, ci sono episodi che vedono un cedimento di Abramo nell’altra direzione. Lo si constata quando ad esempio pensa di trovare lui la soluzione per avere una discendenza: da questo suo prendere in mano la situazione nasce Ismaele il figlio della promessa così come egli pensa. Altri però erano i disegni di Dio.

Nella vicenda di Davide sorprendentemente non troviamo mai cedimenti né alla prima tentazione, quella di tirare i remi in barca e di ritirarsi dalla scena; né alla seconda, quella della fretta, quella cioè di chi vuole anticipare e mandare a compimento i tempi di Dio. Eppure, Davide ha conosciuto occasioni in cui si è visto esposto a queste tentazioni: quando ad esempio fuggiasco si vede costretto per avere salva la vita a riparare presso i suoi stessi nemici, i Filistei: lì deve essere stata forte la tentazione di cedere allo smarrimento e di mettere sopra una pietra su quello che aveva accolto come il disegno di Dio su di lui. Nonostante questo va avanti, continua a perseverare, si fida di Dio e mette a frutto tutte le sue forze e anche la sua astuzia. Ugualmente, quando gli si presenta l’occasione di disfarsi una volta per tutte del suo persecutore, di Saul, alzando la mano contro di lui prontamente prende le distanze da una simile risoluzione: “Per la vita del Signore, solo il Signore lo colpirà o perché arriverà il suo giorno e morirà o perché scenderà in battaglia e sarà tolto di mezzo. Il Signore mi guardi dallo stendere la mano sul consacrato del Signore” (1 Sam 26,10-11).

Don Divo Barsotti considerando proprio questa capacità di paziente attesa di Davide che in nessuno modo ha forzato i tempi di Dio, anche alla luce dei trent’anni di silenzio vissuti da Gesù a Nazaret, trent’anni di attesa prima di dare inizio al suo ministero, ne ricava questo insegnamento: Non dobbiamo aver fretta con Dio. Una delle virtù che dobbiamo esercitare di più è la pazienza, sopportare il silenzio di Dio, fidarsi di Dio anche se tace, anche se è lontano. Nella vita spirituale quante volte ci sembrerà che Dio neppure esista, ci sentiremo soli, inutili, sentiremo che la nostra vita precipita nel vuoto. Pazienza, umiltà e assoluta dimenticanza di sé: questo è il primo insegnamento che il Signore ci dà (op. cit. pp. 123-124).

Don Luigi Pedrini